Ciò che risalta politicamente e culturalmente nelle tesi di maggioranza (salvo quelle presentate come alternative da un considerevole e qualificato gruppo di compagni) è, non il riferimento ideale a Marx (ovvio), bensì l’esclusione del resto. Un resto spesso irriducibile alla sola riflessione marxiana e, molte volte, così legato all’opera di Engels da rendere quella di quest’ultimo non includibile nell’identità di Marx. Sarebbe opportuno ribaltare un luogo comune: cos’è “album di famiglia”, citare Gramsci come ossequio rituale (tesi 52) o, al contrario, farsi carico responsabilmente dei significati
che tal eredità lascia? Questo è il punto: farsene carico, vuol dire fare uscire il marxismo dalla storia delle idee in cui si vorrebbe sterilmente e ideologicamente irreggimentarlo (come se la storia delle idee fosse altra cosa rispetto ai processi reali) per riagganciarlo alla storia dell’umanità che esso ha modificato sostanzialmente a partire da Lenin e dalla rivoluzione d’ottobre. Altrimenti, fuori di questa relazione, di Gramsci, rimane solo l’icona. Ecco, dunque, perché il riferimento a Lenin appare decisivo: perché significa la traduzione nella prassi politica concreta di un patrimonio d’idee e di lotte che lì hanno conosciuto il senso del misurarsi con la storia, interrompendo le drammatiche sconfitte che il movimento operaio aveva conosciuto con le prime due Internazionali. Questo spinse Gramsci a definire “moderno principe” il partito di Lenin: riuscire a mettere in atto ciò che la Russia del tempo chiedeva; determinare, cioè, il passaggio dalla potenza all’atto. Infondere nuovo senso alla storia è una grandezza, sia consentito, incommensurabile rispetto a tanti altri esempi; o, almeno, stabilisce una inconfutabile priorità dalla quale non si può prescindere. La capacità d’analisi e d’azione volta a sviluppare in senso progressivo o rivoluzionario l’emergere di una congiuntura storica è, probabilmente, la cifra più indicativa della politica di un partito comunista.
Ancora: il vivificato protagonismo della classe operaia in Italia e in Europa (con riflessi politici emblematici a Berlino,
dove la Pds grazie al suo 22,6 per cento con alcuni distretti orientali al 45-47, incide pesantemente sui rapporti forza), gli evidenti segni di crisi della fase attuale del capitalismo mondiale, la guerra, c’impongono un ulteriore sforzo nella ricerca di un nuovo internazionalismo. Non si deve, vale a dire, nell’analisi dei fenomeni più rilevanti dello scenario internazionale attuale, giudicarli, in un errore di prospettiva storica, sempre coevi al nuovo movimento contro la
globalizzazione capitalistica. Appare, infatti, una forzatura, definire il conflitto in Afghanistan “prima guerra della globalizzazione”, confinando quella nel Golfo e quella nei Balcani in un’indistinta fase “costituente di un nuovo ordine mondiale”. Ovvero, se dopo il crollo dell’Urss l’imperialismo statunitense cerca nuovi sbocchi, la fase costituente di
una nuova volontà di potenza americana entra da subito in gioco e così continua. Qui s’incrociano altri due fondamentali ordini di problemi: la cosiddetta crisi dello Stato-nazione, del conseguente paradigma interpretativo dell’imperialismo e il giudizio sulla fine della guerra fredda. La fine di quest’ultima, non coincide con il crollo del ‘socialismo reale’; è acquisizione storiografica consolidata quella che ritiene conclusa la ‘guerra fredda’ (lo stato di guerra) già prima, facendo poi iniziare la “coesistenza
pacifica”. Non è un caso che i nuovi conflitti abbiano interessato aree geopoliticamente strategiche ma intoccabili sino al ’91. Tant’è che Russia e Cina non sono per nulla subordinate a “un sistema di alleanze, pur conflittuale, pur a
geometria variabile, del tutto nuovo”. La globalizzazione capitalistica non è una categoria che si può applicare facilmente alla politica. Lo stato-nazione non si è estinto; cambia forme. Esistono, pur sempre, circa 200 Stati (sebbene alcuni fittizi) e tre quarti della popolazione mondiale vive in 25 di essi (con oltre cinquanta milioni di abitanti) senza autorità a loro superiore. Anche nel recente caso dell’Argentina, la globalizzazione, lungi dal costituire il mondo in un’unica entità a-nazionale, impone (per rientrare nel sistema monetario capitalistico internazionale) un preciso orientamento di politiche economiche e sociali prettamente nazionali. Inoltre, che la riflessione critica sulla globalizzazione capitalistica debba tenere in considerazione la categoria di imperialismo è drammaticamente dimostrato, oltre che dalla guerra in Afghanistan e dallo scontro israelo-palestinese, dalla conferenza di Durban tenutasi prima dell’11 settembre 2001. Poco opportuna, oltre che semplicistica, appare, quindi, la tesi 14 sul “Superamento della nozione classica di imperialismo”. Se, “paesi aggrediti dalle grandi potenze, non si trasformano per questo in soggetti antimperialisti” è, infatti, compito di un nuovo internazionalismo trasformare la conferenza di Durban in una nuova Bandung. “Socialismo o barbarie”, allora; ma, se “la rivoluzione torna ad essere una possibilità, un approdo possibile della storia umana”, la posta in gioco oggi è la necessità di essere interpreti intelligenti del nuovo movimento che tende, altrimenti, a realizzarsi come alternativa “per sé” alla globalizzazione capitalistica.
Massimiliano Piccolo
Federazione di Catania
Circolo Geymonat