Ma Mogadiscio è come Kabul?

L’esperienza di questi ultimi quindici anni dimostra che è difficile controllare Mogadiscio, la capitale della Somalia. Mogadiscio può anche essere un guscio vuoto, perché da tempo non è la sede di nessun governo effettivo. Il valore simbolico della capitale dell’unico stato somalo della storia e la sua posizione strategica per i traffici leciti e illeciti, grazie al porto e all’aeroporto, finiscono per avere un peso decisivo. L’esperienza dimostra pure che di per sé il controllo di Mogadiscio può non significare il controllo del paese. La frammentazione che si è stabilita in Somalia dopo la caduta del regime di Siad Barre nel 1991 ha ormai radicato identità e differenze impervie da superare, non meno forti per il fatto che l’insediamento delle milizie che sovrintendono a quel poco o tanto di «governo» che è possibile nei vari spezzoni non sempre rispetta l’habitat tradizionale dei clan.
Una novità reale
Con tutto ciò, la svolta che si è prodotta con la cosiddetta «vittoria» delle forze militari che rappresentano le «corti islamiche» contro una coalizione spuria di alcuni signori della guerra armati e sobillati dagli Stati uniti e probabilmente dall’Etiopia (ma al loro fianco potrebbero esserci o esserci stati anche aiuti italiani) ha segnato una novità reale. Il passo successivo, ammesso che i signori della guerra sconfitti non siano in grado o non siano messi in grado di prendersi una rivincita, dovrebbe essere il faccia-a-faccia fra l’autorità che si richiama all’islam e il governo federale di transizione.
Corti islamiche e governo di transizione hanno la stessa vocazione ad essere transclanici. Il governo lo è per somma di vari clan, o meglio dei loro leader militari e in qualche caso dei rispettivi «anziani» – se non altro per copertura, visto che esso è uscito da un faticoso compromesso fra una dozzina di movimenti, in una conferenza andata avanti per mesi e mesi a Nairobi. Le corti islamiche, che si sono dotate anche di un Consiglio supremo, sono per definizione sopra o attraverso i clan perché la loro ragion d’essere è un motivo religioso, o se si vuole politico-giuridico: esse non nascono dal nulla, essendosi via via affermate negli interstizi dei poteri di fatto esercitati dai signori della guerra, sia pure con qualche base territoriale a fini di autodifesa o di attacco per guadagnare spazi sempre maggiori.
La presenza delle corti islamiche si è imposta prima per consenso e poi con la forza. E anche questa è una mezza novità. Non è detto però che all’interno l’appartenenza clanica sia stata veramente rimpiazzata dall’ideologia islamica o islamista, che ha mobilitato tutti a battersi contro un nemico indifferenziato e bollato come «infedele» (in sé o perché assistito dagli Usa?).
Un segno di sopravvivenza del clanismo è che a Mogadiscio come unico antagonista del nuovo potere sia emerso un movimento che si qualifica come Abgal, un sotto-clan degli Hawiye che anche ai tempi dello scontro fra Ali Mahdi e Aidid ebbe un ruolo importante. Il punto debole del governo, che si era defilato a Baidoa anche prima dell’ultima crisi perché Mogadiscio aveva respinto sia il suo capo, Ali Mohamed Gedi, che il presidente designato, Yusuf , che ha comunque una politica sua e una sua sede a Jowhar, è di non avere né consenso né forza. Per acquistare un po’ di credito, Gedi ha approfittato dell’opposizione che si è diffusa in Somalia verso una neonata struttura politico-militare che già nel nome – Coalizione per la restaurazione della pace e contro il terrorismo – lascia trasparire di essere al servizio di una strategia «esterna» alla Somalia. La decisione di mettere alla porta quattro ministri che avevano aderito alla Coalizione va nel senso di più impegno e più autonomia.
Se i due protagonisti in ascesa troveranno un’intesa per far valere la legge e l’ordine, si può immaginare come primo effetto un rafforzamento del governo Gedi, che beneficerebbe del prestigio delle Corti e della loro dislocazione in gran parte della Somalia, della patina unificante dell’islam e del supporto finalmente di una forza militare che non dipende dal buon volere dei dirigenti e degli eserciti che l’hanno creato e che perciò si sentono abilitati a condizionarlo e a ricattarlo. Le Corti, dal canto loro, cesserebbero di essere un contendente fra i tanti e potrebbero ufficializzarsi come parte di un governo che in teoria è stato voluto dalla comunità internazionale. Finora, se mai, il governo di Gedi ha deluso i suoi sponsors perché troppo debole e timido. C’è da aspettarsi però che nel momento stesso in cui rivendicasse libertà d’azione o più semplicemente il diritto all’azione sarebbe contestato e al limite delegittimato da Etiopia e Stati uniti, che non hanno tardato a manifestare la loro «inquietudine» per l’affermazione di una forza che a torto o ragione essi associano al «terrorismo internazionale» e all’immancabile al Qaeda.
Affermazione inaccettabile
Nel mondo di oggi agli islamisti non si perdonano nemmeno le vittorie ottenute in debita forma elettorale. E’ facile capire perché un’islamizzazione mediante un atto di forza sia ancora meno accettata. Sarebbe inutile del resto contrapporre che tutti in Somalia impiegano la forza perché si sa che, come in Cecenia o nel Sudan, e ieri nel Kosovo, i buoni e i cattivi non si giudicano con il criterio del ricorso alle armi ma dalla loro disponibilità ad «aprire» i rispettivi paesi agli interessi politici, economici e militari che conducono il giuoco ad alto livello per poste di portata mondiale.
La Somalia fu già teatro di un intervento degli Stati uniti e poi dell’Onu dieci e più anni fa. I comandi americani non hanno mai dimenticato la «lezione somala»: mai più interventi senza obiettivi precisi, mai più partecipazioni a forze multinazionali che non siano gestite direttamente dagli stessi Stati uniti, mai più operazioni di nation-building in paesi infidi e arretrati come sono per lo più i paesi africani. Si sente in giro più incalzante che mai la tentazione di qualche altra incursione in questo paese che a molti, con le semplificazioni di una certa stampa e di una certa intelligence, appare stranamente simile, nel panorama fisico e politico, all’Afghanistan (ora la Somalia avrebbe anche i suoi bravi taliban).
L’Unione africana (Ua) sarebbe munita delle credenziali giuste per evitare il peggio. Ma il precedente del Darfur, dove l’Ua ha dovuto ammettere di non avere i mezzi per sostenere fino in fondo il suo compito, non depone a favore della nuova organizzazione africana. E’ suonata patetica, fra tante armi che circolano impunemente nel paese, la richiesta all’Onu di levare l’embargo militare in vigore sulla Somalia dal 1992 per agevolare un proprio intervento. Per parte sua Sheikh Sharif Sheikh Ahmed, il capo delle milizie che si sono impadronite di Mogadiscio, ha già minacciato gli americani di impartir loro una lezione ancora più dolorosa di quella del 1993. Si vorrebbe però che chi vuole ricostruire la Somalia abbia qualche idea migliore di un’altra sfida con la superpotenza, che non aspetta altro che un pretesto per colpire in proprio o utilizzando a sua discrezione l’Onu e la stessa Ua. La Somalia, la povera, derelitta, fiera e sofferente Somalia, si merita almeno una terza via.