Ma la ripresa “inattesa” conferma la teoria di Keynes

Un “inatteso” boom delle entrate fiscali, un “inatteso” incremento del tasso di crescita del prodotto interno lordo, un “inatteso” exploit dell’economia europea, che per la prima volta dopo cinque anni cresce più speditamente di quella americana: se davvero l’ortodossia economica dominante fosse una “scienza”, come pure sostiene di essere, le anomalie emerse nei primi sei mesi di quest’anno avrebbero dovuto mobilitare gli economisti e indurli a spiegarci come mai, nonostante venissimo da un passato prossimo segnato (a loro avviso) da un “diabolico mix” di “conti pubblici al collasso” e preoccupanti conati di “dirigismo neocolbertiano”, che (sempre a loro avviso) avrebbe dovuto portarci alla bancarotta economica e finanziaria, abbiamo invece registrato il miglior risultato economico da tre anni a questa parte.
In realtà, è difficile che ciò accada. Nella forma “bocconiana” oggi prevalente nel nostro Paese, la teoria economica serve unicamente a riverniciare di un’aura di “scientificità” le politicissime esortazioni a dismettere, liberalizzare e tagliare che periodicamente ci dispensano gli accademici al soldo dei maggiori quotidiani italiani. La riprova è che, invece di un qualche chiarimento sul motivo per cui le anomalie registrate in questi giorni d’agosto non sarebbero tali da inficiare i teoremi ortodossi e le ricette draconiane che ne derivano, ci è stato somministrato tutt’altro spettacolo: un ministro in carica che, dopo aver annunciato tagli a pensioni, sanità, pubblico impiego e enti locali, si dà alla polemica semi-privata (o semi-pubblica) con uno di codesti accademici, che lo aveva accusato di non voler tagliare abbastanza.

Sospettiamo, però, che il silenzio degli economisti ortodossi non sia casuale e testimoni di difficoltà non più emendabili con “ipotesi ad hoc”. Per dirla tutta, ci sembra di poter sostenere che la nostra economia non è cresciuta “nonostante” i buchi nei conti pubblici (come forse ci direbbero i nostri soloni, se non fossero in tutt’altre faccende affaccendati), ma “grazie” a questi ultimi. E che, se è cresciuta meno di quanto non abbiano fatto nel frattempo la Francia o la Germania, non è “a causa” dei conati di dirigismo, ma al contrario perché questi ultimi sono rimasti “conati” e non si sono mai trasformati in una politica industriale virtuosa e capace di avviarci alla risoluzione dei problemi legati al gap tecnologico che affligge la nostra struttura produttiva.

Una “teoria” alternativa a quella ortodossa e in grado di spiegarci quanto è successo nei primi mesi di questo 2006 infatti esiste, ed è quella keynesiana. Essa rifiuta l’opinione dominante secondo cui la spesa pubblica avrebbe sempre un effetto depressivo su quella privata, specie per investimenti, e dunque non potrebbe implicare alcun aumento netto del reddito nazionale, ma soltanto un incremento della sua componente pubblica a scapito di quella privata: al contrario, essa spiega che, se la spesa pubblica è finanziata in deficit, costituisce una spesa “addizionale” e non semplicemente “sostitutiva” di quella privata; e poiché quel che per lo stato è “spesa” per qualcun altro è “reddito”, il deficit spending può favorire la ripresa dell’investimento privato e indurre un aumento del reddito nazionale, quindi del gettito fiscale e, per questa via, il ripianamento del debito contratto in precedenza.

Se riesaminiamo i fatti di questi primi sei mesi alla luce dell’impianto teorico keynesiano, le anomalie di cui si diceva all’inizio cessano di essere tali: un aumento della crescita e del gettito fiscale è esattamente quanto ci si deve attendere da un bilancio pubblico in rosso in un contesto di non pieno impiego delle attrezzature produttive (ricordiamo che, negli ultimi dieci anni, il tasso di utilizzo degli impianti è stato pari all’82,3% nell’Unione europea e al 77% in Italia). E poiché la previsione del Dpef di un aumento del 5,8% delle entrate fiscali per l’intero 2006 sarebbe ormai compatibile solo con entrate stagnanti (anzi, in lieve calo) per il resto dell’anno, possiamo attenderci – coerentemente, anche qui, con la teoria keynesiana – che l’indebitamento pubblico di quest’anno sarà minore di quello previsto, forse inferiore perfino all’obiettivo concordato con Bruxelles.
Ma la conferma più rilevante della plausibilità della lettura keynesiana arriva dalla buona performance europea. A trainare la crescita sono infatti la Francia (+3% su base annua) e la Germania (+2,4%), vale a dire i paesi che per primi hanno sfondato la gabbia di Maastricht, attestando il loro rapporto deficit/Pil ben al di là del famigerato 3%. Se poi, nel comunicarci il dettaglio delle componenti del nostro Pil e il loro contributo alla crescita, l’Istat dovesse dirci che anche le nostre esportazioni hanno beneficiato della maggior crescita di Eurolandia, verificheremmo alla lettera un’altra implicazione desumibile dalla teoria keynesiana, e cioè che, essendo l’Unione europea un sistema prevalentemente “chiuso” rispetto al commercio internazionale (basti pensare che, per ciascuno dei suoi tre principali membri, ossia Germania, Francia e Italia, il 70% dell’interscambio complessivo avviene con paesi membri dell’Unione), i principali beneficiari “esterni” di ogni espansione della domanda interna dei singoli membri dell’Unione sono principalmente gli altri membri dell’Unione. Come dire che, presi nell’assieme, i paesi membri dell’Unione guadagnano ciò che spendono.

Se ciò che si è detto è anche minimamente vero, ne discendono precise implicazioni di politica economica. Innanzi tutto, emerge la stringente ragionevolezza della strategia volta a promuovere la stabilizzazione (piuttosto che l’abbattimento) del nostro debito pubblico, strategia esplicitata nell’appello pubblicato il 16 luglio scorso sul quotidiano “il manifesto” e sottoscritto da oltre sessanta economisti della “Rive Gauche”, tra i quali Pierangelo Garegnani e Augusto Graziani (http: //www. appellodeglieconomisti. com). Lo sconcertante silenzio con cui la sponda “bocconiana” dell’accademia ha accolto le argomentazioni ivi presentate dimostra, come meglio non si potrebbe, la loro plausibilità, certo non revocabile in dubbio – come convincentemente sostenuto da Alfonso Gianni su queste stesse colonne il 5 agosto – dalla recente decisione della Banca centrale europea di rialzare i tassi d’interesse in Eurolandia.

La seconda implicazione concerne l’uso delle maggiori risorse che una strategia del genere permetterebbe di avere a disposizione. La teoria keynesiana insegna che una politica di bilancio espansiva funziona tanto meglio quanto meno un’economia dipende dalle importazioni, e questo è il motivo per cui Keynes raccomandava che una saggia politica della domanda dovesse accompagnarsi ad una “socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento”. Così stando le cose, l’efficacia della strategia di stabilizzazione del debito sarà tanto maggiore quanto più le risorse disponibili saranno investite nella ricerca necessaria a colmare il gap tecnologico che affligge la nostra struttura produttiva e che fa sì che ogni aumento della domanda interna si traduca attualmente in un peggioramento della nostra bilancia commerciale. Ciò, naturalmente, richiederebbe un serio ripensamento della scellerata politica di privatizzazione e smantellamento del patrimonio industriale pubblico degli ultimi quindici anni e consentirebbe di individuare un ruolo specifico per la Cassa Depositi e Prestiti, prima che – con la scusa che si tratta di un ircocervo dai compiti non ben definiti – a qualcuno salti in mente di privatizzare anche quella.

Su questi temi (sebbene, certo, non solo su questi) si giocherà nei prossimi mesi la partita per dare al governo in carica una connotazione realmente progressista, e non solo liberale. Sperando, s’intende, che qualcuno questa partita voglia giocarla per davvero.