Ma io dico, “Liberazione” ha torto, quel compromesso non può bastarci

Trovo un po’ troppo allarmistico l’editoriale di Piero Sansonetti di ieri con cui paventa la possibile caduta del governo Prodi sul voto della missione militare in Afghanistan. Allarmistico e non comprensivo delle reali posizioni di chi oggi è in dissenso. Inoltre è apodittico nella premessa, laddove si dà per raggiunto un accordo, addirittura “alto”, tra le varie componenti della coalizione che compromesso proprio non è.
Va chiarito infatti che il decreto, secondo quanto confermato da Parisi e D’Alema, ricalcherà esattamente quelli precedentemente messi a punto dal governo Berlusconi e che la proclamata riduzione dei militari fa parte, cito ancora Parisi e D’Alema, «di una normale rotazione fisiologica decisa dal Comando alleato». L’intervento in Afghanistan, almeno a quanto ne sappiamo finora, non muta e se una novità c’è questa è data dalla mozione parlamentare di accompagno. Che non voglio sottovalutare ma che rientra nelle dichiarazioni di intenti – peraltro tutte da scrivere – mentre il decreto struttura l’intervento militare vero e proprio. Quanto all’Osservatorio o Comitato parlamentare – ma in realtà ognuno ne detiene una versione e non c’è un vero e proprio accordo su questo – secondo Parisi è formato dalle Commissioni Esteri e Difesa e nessun esponente del governo si è detto finora d’accordo su un suo allargamento a settori della società civile.

Se questo organismo permetta o meno di effettuare una verifica è tutto da stabilire sapendo però che, sempre ieri, Parisi ha parlato della necessità di «almeno tre anni» per realizzare una verifica soddisfacente e di un impegno in Afghanistan di almeno «dieci anni» per stabilizzare il paese, impegno non necessariamente tutto militare. Quindi come si vede i dubbi e le contrarietà di chi si dice non disposto a votare il decreto poggiano sulla constatazione che la discontinuità non esiste e che il governo dell’Unione si appresta a prorogare la permanenza di una missione militare di circa 1.500 uomini in Afghanistan. Che staranno lì a sparare e a farsi sparare, inquadrati in una missione complessiva Nato nella quale cureranno le aree di Kabul e Herat che non sono certamente tranquille.

Il merito dunque incide moltissimo sull’atteggiamento da tenere nel voto che non può essere incastonato, troppo semplicemente, nel rispetto di un quadro politico quale la tenuta della maggioranza. Ecco, io credo che qui il dibattito al nostro interno e lo stesso articolo di Piero, registri un passo indietro rispetto a quanto elaborato e teorizzato dal nostro partito nella stagione dei movimenti. L’idea cioè che, per usare le parole di Sansonetti, «quando si fa politica, e si accetta di farlo a un livello molto alto e cioè da dentro le istituzioni, non si possono solo enunciare principi e intenzioni» mi sembra un cedimento al politicismo cui ci ha abituato la politica moderata delle sinistre negli ultimi venti anni. «Bisogna farsi carico dei problemi», «bisogna saper accettare dei compromessi» e così via non collimano più con l’enunciazione del “senza se e senza ma” che, sulla guerra, ha guidato la nostra condotta per cinque meravigliosi anni.

E’ tutto finito? Ora, che si è al governo, ci “si sporca le mani”? Io non voglio sporcarmele ma soprattutto non credo che la politica possa essere ridotta a questo. Non è quanto abbiamo appreso, e detto, nell’esperienza dei Social Forum, nella pratica della disobbedienza, nella rivalutazione di un’etica che sovrasta la politica, financo nella indicazione di una scelta nonviolenta. Tutto questo non può andare bene quando si è all’opposizione ed essere relativizzato quando si è al governo. E’ uno scarto troppo audace e una furberia che nega noi stessi, la nostra storia e la nostra funzione.

Voglio dire che Rifondazione non è solo il partito che lotta per la pace, l’uguaglianza, le libertà ma anche il partito che fonda un nuovo modo di fare politica e che sconfigge la logica dei due tempi cioè quella che mantiene intatti gli ideali per poi cedere nella concretezza al compromesso. Non possiamo dire che siamo contro la guerra, contro la missione in Afghanistan, che questa posizione resta intatta e poi, al momento delle scelte operative – ché questo è il governo, altro che “attraversarlo indenni” – negare questo convincimento. Se la nostra politica non poggia solidamente su principi e intenzioni allora non ha avuto senso quanto abbiamo costruito finora.

Ma, dice Sansonetti, è anche necessario «dichiarare lealmente tutto il percorso che si vuole scegliere». E questo percorso in caso di voto contrario, implicherebbe «la caduta del governo, le elezioni anticipate o la formazione di una nuova maggioranza neocentrista, la candidatura del Prc alle prossime elezioni da solo e fuori dall’alleanza con l’Ulivo». Mancano solo le cavallette e la peste bubbonica. Così facendo non ci si lascia altra strada che accettare per sempre il compromesso possibile, quello dettato dagli attuali rapporti di forza. Ma questo lo faceva Cossutta prima di noi e lo abbiamo contrastato.

E’ un po’ paradossale che chi, come Rifondazione, denuncia, giustamente, il ricorso alla fiducia come un espediente per salvarsi l’anima, in realtà la fiducia su questo decreto l’ha già messa sin da quando l’ex segretario Fausto Bertinotti avvertì che «se non votiamo l’Afghanistan il governo rischia di cadere». Io non credo che sia così a meno che su questa missione, non inscritta nel programma, il governo non intenda legare le proprie sorti e la propria natura. Il che sarebbe scandaloso. Anche per questo ho chiesto di scorporare la missione afgana dalle altre, consentendo al governo di ottenere un ampio consenso sull’impianto centrale di politica estera e delimitando il dissenso sull’Afghanistan.

Il punto è che se si è in dissenso su questo punto non si mette in gioco la sorte del governo – che invece è legata al suo programma che ci siamo impegnati a rispettare pur non condividendolo – ma si certifica che su una questione importante Prodi non ha la maggioranza e quindi deve tenerne conto. Questo significa che non si possono mantenere i soldati in Afghanistan? Allora li si ritiri. Oppure si accetti di discutere un’ipotesi di “exit strategy” che è già un’enorme concessione che facciamo al governo. Se invece li si vuole mantenere lo si faccia sapendo di non poter contare sul sostegno di chi contro quella guerra si è battuto da sempre “senza se e senza ma”. E questa è una scelta politica di prima grandezza.