Ma il calo dei consumi è la soluzione giusta?

I consumi calano. E’ una buona o una cattiva notizia? La domanda non è peregrina.
Da tempo, infatti, una parte consistente del movimento ambientalista sostiene che i nostri mali attuali derivano da una sfrenata corsa ai consumi, che non terrebbe conto della finitezza delle risorse di cui disponiamo e dell’insostenibilità di un’estensione a tutto il pianeta del nostro modello di produzione e distribuzione della ricchezza sociale.

Secondo quest’opinione (recentemente argomentata su queste colonne da Fabrizio Giovenale), i guai delle nostre società deriverebbero da un eccesso – e non da una crisi – di consumo, onde sarebbe illusorio credere ancora nel “toccasana del consumare di più”; al contrario, una “società della decrescita” (secondo un’espressione cara a Serge Latouche) è quanto dovremmo auspicare per noi e per i nostri nipoti.

Mi è già capitato di osservare che, se questa tesi fosse vera, dovremmo ringraziare il governo in carica (ma anche buona parte dei suoi predecessori) per tutte quelle politiche che, impoverendo la classe lavoratrice e i pensionati, ne hanno contratto drasticamente la possibilità di accesso ai consumi.

E dovremmo giudicare il rigore finanziario impostoci dai vincoli di Maastricht, foriero di una sistematica compressione della domanda effettiva, come una vichiana astuzia della ragione, in grazia della quale le nostre società post-opulente verrebbero ad essere traghettate verso il paradiso della “crescita zero”.

La sofferenza sociale diffusa che si accompagna alle rilevazioni statistiche del calo dei consumi e del Pil dimostra, però, che le cose non sono purtroppo così semplici.

Non si può infatti pensare che la critica ai modelli dominanti di accumulazione e di consumo possa essere svolta assumendo lo stesso parametro quantitativo che si rimprovera agli economisti di utilizzare per misurare il benessere (o il malessere) della società e che, dunque, sia sufficiente che calino i consumi e il Pil per conseguire la felicità.

Il Pil, a ben guardare, non è altro che un registratore: indica semplicemente quanta ricchezza sociale viene prodotta e consumata.

Che poi lo faccia assumendo come unità di misura il “valore” di quest’ultima, cioè la sua capacità di essere scambiata con denaro, è solo la conseguenza del limitato grado di socializzazione cui siamo pervenuti, che non ci permette (salvo che per circoscritti settori della nostra vita associata) di valutare altrimenti il carattere socialmente necessario del prodotto del lavoro individuale. Ma così come non possiamo credere che basti restare disoccupati per sfuggire all’alienazione del lavoro salariato, allo stesso modo non possiamo illuderci che basti produrre e consumare “di meno” per salvare la natura e noi con essa.

Il problema è dunque più complesso di quanto non appaia dalle semplificazioni ambientaliste, e concerne non già la nostra “generica” capacità di produrre e consumare, ma la nostra specifica capacità di farlo entro rapporti di produzione, distribuzione, scambio e consumo diversi da quelli capitalistici. Al riguardo, peraltro, e nonostante il regresso intervenuto negli ultimi vent’anni, siamo ben lungi dall’essere all’anno zero. Esiste infatti un ambito consistente della nostra organizzazione sociale all’interno del quale le decisioni allocative e distributive non sono ispirate dalla logica meramente quantitativa del massimo profitto a breve, ma rispondono (almeno tendenzialmente) a considerazioni di utilità sociale: la costruzione di un ospedale o di una scuola, l’istituzione di un parco naturale, la concessione di un’indennità a chi è disoccupato, invalido o anziano sono tra queste.

Ovviamente, anche per decisioni del genere si pone un problema di reperimento delle risorse e di individuazione delle priorità (vale a dire, quali bisogni vanno soddisfatti prima e quali dopo), ma ad esso si fa fronte con uno strumentario che nulla ha a che fare con l’indebitamento con le banche e la fornitura del bene o del servizio secondo prezzi di mercato: i pubblici poteri rinvengono le risorse attraverso il prelievo fiscale e attribuiscono beni e servizi in forma di diritti. E nel momento stesso in cui lo fanno, “disegnano”, per così dire, un quadro di convenienze e di priorità che può orientare la stessa azione delle imprese capitalistiche, per le quali obiettivi sociali come il recupero di una costa o l’ammodernamento delle tecnologie elettromedicali dei nostri ospedali si presentano inevitabilmente come domanda monetaria.

Che scelte del genere possano comportare (come di fatto statisticamente comporterebbero) un aumento della produzione, dei consumi e dunque del Pil non dovrebbe, a questo punto, preoccuparci: se i contabili vogliono prendersi la briga di misurare in forma di valore una ricchezza che è prodotta in forma di diritto, facciano pure. L’importante è che non cadiamo noi stessi prigionieri del feticcio del Pil: guardare ai fenomeni sociali con lo stesso metro dei nostri avversari sarebbe davvero esiziale per le nostre prospettive di liberazione.