Luis Corvalán ha ormai 90 anni, per 31 anni – fino all’89 – è stato segretario generale del Pc cileno e, dice, «da 60 anni sposato con Lily». Don Lucho, come lo chiamavano tutti anche quando era uno degli uomini più amati e più odiati del Cile e non aveva ancora i capelli e una folta barba bianchi che spuntano da sotto un cappellino stile Lenin che porta sempre in testa. «Non sono più in prima linea, anche se faccio ancora parte del comitato centrale. I compagni mi chiamano ogni tanto per dare una mano, quando c’è bisogno. Leggo e scrivo». Mi mostra i suoi libri più recenti: «El gobierno de Salvador Allende» sui mille giorni della Unidad Popular, «De lo vivido y de lo peleado» che sta grosso modo per «Quel che ho vissuto e combattuto», le sue memorie, e il più recente: «El derrumbe del poder sovietico», sul crollo dell’Urss e del Pcus («l’eccesso di potere gli è stato fatale») che non elude anche una dolorosa autocritica del Pc cileno e la sua cieca adesione alla «patria del socialismo» («non volemmo vedere la realtà qual era»). Adesso ne sta scrivendo un altro che, dice, è «il più difficile», sui comunisti e la democrazia.
Reso ancor più piccolo dall’età – dicono che fu arrestato dopo il golpe proprio per via della sua statura che lo rendeva facilmente riconoscibile – mi accoglie sulla porta della sua casa, una casa modesta a un piano, nel quartierone misto popolare-classe media di Nuñoa, e mi porta nel suo studio. Tipico: pieno di libri (tutto Neruda, tutto Lenin…), di scartoffie, di ricordi dei posti che ha visitato e dei paesi in cui ha trascorso molti anni d’esilio, di foto di suoi compagni (Recabarren, il padre fondatore del comunismo cileno, di Allende, ancora di Neruda) o di lui insieme ai potenti della sinistra di allora (Breznev, Honecker che venne a morire in Cile dopo il crollo della Repubblica democratica tedesca). C’è anche una sua foto con Fidel, entrambi molto più giovani.
Un sistema infame
Siamo al mattino successivo alle elezioni di domenica. Inevitabile parlare dei risultati e di quel sistema binominale che ancora una volta esclude i comunisti, ridotti male per conto loro ma pur sempre una presenza storicamente imprescindibile nella storia del `900 cileno. «Un sistema infame – dice – inventato espressamente contro il Pc ma che in realtà è contro la democrazia». E non è la prima volta. Nei primi anni `30, racconta, fu il dittatore Ibañez, nel `49 fu il presidente Gonzalez Videla con una legge chiamata di «difesa della democrazia», passata alla storia come «la Ley maldita», nel `73 fu il golpe di Pinochet che diceva di voler impedire «la dittatura comunista e si è visto come l’ha difesa», ora, in democrazia, è il sistema binominale.
«Furono tutti strumenti legali contro il Partito comunista», un partito che al contrario di molti altri è sempre stato sempre molto «nativo e nazionale», perché in Cile il Pc di Recabarren nacque prima del Partito socialista, nel 1920, «e ha giocato sempre un ruolo importantissimo nella storia del Cile». Come a voler dimostrare che «comunismo e democrazia sono incompatibili».
Si alza e va in giro per la stanza a cercare libri e scritti come prove inconfutabili di questi «strumenti legali» ricorrenti per togliere di mezzo i comunisti cileni. Che gli hanno reso la vita difficile ma non ci sono riusciti. Nel `32 ci fu un golpe guidato dal commodoro dell’aria Mamaduke Grove che stabilì una Repubblica socialista sia pure durata solo 12 giorni, nel `36 ci fu un primo Fronte popolare che diede vita a un governo democratico, nel `70 si formò la Unidad Popular intorno ad Allende e nel marzo del `73, le ultime elezioni prima del golpe, il Pc aveva eletto 23 deputati.
Mi fa vedere i giornali con i risultati di domenica: il Partito socialista, con il 9,9% dei voti è passato da 5 a 8 senatori e da 11 a 15 deputati, il Partito radicale con il 3,5% ha aumentati i deputati da 6 a 7 e i senatori da zero a 3: il Pc e affini con il suo 7,3% e quasi mezzo milioni di voti, niente. Fuori. Un’altra «Ley maldita». Ma c’è. «Eh, sì. Lagos dice che non ha la maggioranza parlamentare per poter cambiare il sistema binominale. Ma neanche Allende aveva la maggioranza e decise di nazionalizzare il rame… Se un governo ha la volontà di cambiare mobilita il paese».
Ora, dico, se Michelle Bachelet vincerà il ballottaggio, la maggioranza l’avrà. Crede che questa sia la volta buona? «Può essere, può essere… non dico di no perché fra i socialisti, il Ppd e la Dc c’è anche brava gente. Non so, in ogni caso non avrebbero più alibi».
Una decisione personale
Gli ricordo che Hirsch dice che non voterà per Bachelet nel ballottaggio. Stento a credere che da vecchio comunista lui annullerà il voto. «Per il momento è una decisione personale di Tomás. Noi dovremo discutere e decidere nel nostro comitato centrale. Io credo che proporremo un’altra soluzione, tre o quattro punti come contropartita politica del nostro appoggio». Il primo sarebbe ovviamente la cancellazione del «maldito binominal», un altro la riforma della privatizzazione delle pensioni, quell’altra gran pensata del ministro pinochettista José Piñera, il fratello ora democristiano di Sebastián, che si è rivelata un disastro e una truffa… «Nessuna richiesta rivoluzionaria».
Cosa pensa di Michelle? «La conosco poco. Conoscevo bene suo padre, il generale, massone come Allende, e conosco bene anche sua madre che è stata in esilio nella Germania orientale quando c’ero io. Mi sembra molto simpatica. Credo che vincerà». E di Lagos? «Il fatto è che la Concertación non ha voluto rompere del tutto con la dittatura. Ha fatto alcune modifiche della costituzione dell’80, importanti per carità, ma perché non ha convocato una costituente e un plebiscito per scriverne una nuova?», si alza di nuovo per mostrarmi un libro di storia della transizione, «scritto da uno storico democristiano», che riporta il testo di una lettera d’impegni dei primi anni 80 in cui le condizioni tassative per l’apertura erano: primo «l’isolamento – isolamento, non proscrizione – del Pc» e, secondo «il mantenimento della costituzione pinochettista». Da qui viene la continuità. In politica e in economia, «salari minimi da 130mila pesos, pensioni che in certi casi sono di 40mila pesos al mese» (più o meno 200 e 65 euro), «una vergogna».
Un cambio reale
E cose si esce da tutte queste trappole, don Lucho? Ridacchia: «creando un’alternativa conseguentemente democratica che promuova un cambio reale. Il Cile deve entrare in quell’onda in cui si trovano il Brasile, l’Argentina, il Venezuela, l’Uruguay…, quel progetto di integrazione e d’indipendenza dell’America latina contro il neo-liberismo e per governare la globalizzazione, che è inevitabile». La direzione diametralmente opposta a quella del Cile a guida del centrosinistra.
Una strada difficile per uno come lui che ha sempre creduto, e crede, nel comunismo.
«Il comunismo non è morto e non morirà perché il capitalismo non è in grado di governare il mondo».
A parte la repressione e le leggi maledette vecchie e nuove, anche in Cile una forza importante come il Pc è quasi sparita. Quale autocritica c’è da farsi, don Lucho? «Guardi compañero, neanche nel disastro della Unidad Popular gli errori principali sono stati del Partito comunista, ma di altri… Noi siamo stati deboli nella critica ai socialisti e al Mir anche se non so se le cose sarebbero potute andare diversamente. L’unico vero errore è stato quello di non aver insistito di più nel cercare un’alleanza con la Dc. Un altro errore, dopo, fu di esserci opposti per troppo tempo, fin quasi all’ultimo, al referendum del’88 su Pinochet e questo contribuì al nostro isolamento». E la lotta armata che proprio Corvalán lanciò da Radio Mosca nell’83? «Senza la lotta anche armata Pinochet sarebbe rimasto al potere per altri 10 anni».