Ma ci vorrebbe subito nuovo codice e depenalizzazione

Pace all’anima di Fedor Dostoevskij. Programma dell’Unione, capitolo giustizia, pagina 65: «Il livello di civiltà di un paese si misura osservando le condizioni delle sue carceri». Nessun accenno, né del grande genio russo, né dei più modesti estensori del programma del centrosinistra, alla costruzione di nuovi penitenziari. Eppure il ministro Mastella, parlando ieri alla platea ciellina di Rimini, ha squarciato il velo: «Dopo l’indulto servono nuove carceri». Non carceri nuove, ma nuove carceri, cioè altri edifici. «Spero di metterci meno di vent’anni» dice. «Con le mie norme ne bastano cinque», lo conforterà in serata l’ex Guardasigilli Castelli.
Il tema, si capisce, è estremamente delicato e la boutade del leader di Ceppaloni in un colpo solo scuote la politica del governo sul tema più caldo del momento: “dei delitti e delle pene”. E qui Mastella sembra seguire una rotta tutta propria, autonoma dalle indicazioni del programma dell’Unione dove le priorità indicate sono ben altre: depenalizzazione, misure alternative alla detenzione e riforma del codice penale.

E infatti sull’affermazione un po’ equivoca del ministro, offerta in pasto al pubblico del meeting con accenti oltremodo rassicuranti, si solleva un coro di no dalla sinistra e dalle associazioni che abitano il pianeta-giustizia: «La costruzione di nuove carceri è una politica vecchia che non ha mai prodotto buoni frutti» taglia corto Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. «Misura sbagliata e inefficace» gli fa eco Daniele Farina, vicepresidente della Commissione giustizia alla Camera. «Carceri nuove no, per carità, miglioriamo quelle esistenti», ammonisce Carmen Bertolazzi, responsabile Arci-“Ora d’aria”.

Probabilmente Mastella pensa a realtà estreme in cui occorre intevenire con nuove strutture. Certo la sua uscita, messa così, pare un po’ infelice. A credere nella “buona fede” del ministro è Franco Corleone, diessino, garante di detenuti nel comune di Firenze: «Occorre costruire nuove carceri nel senso che deve cambiare il modo di essere degli istituti penitenziari. Non nuovi edifici ma un nuovo modo di relazioni per rispettare il principio costituzionale del reinserimento sociale». «Certo – prosegue – alcuni istituti come quelli di Favignana, Savona e Pordenone devono essere chiusi e sostituiti perché sono un’infamia civile. Ma per il resto serve un piano di ristrutturazioni per garantire servizi e condizioni di vita decorose». La vera responsabilità del ministro, ragiona ancora Corleone, è semmai quella di non aver dato segni di discontinuità rispetto alla gestione Castelli dell’amministrazione penitenziaria: «Dopo 5 anni di onnubilamento paraleghista bisogna azzerare i vertici del Dipartimento. Mastella non ha ancora nominato il nuovo capo».

Comunque la si voglia guardare, la questione è che nessuno giudica la costruzione di nuove strutture detentive una priorità, la ricetta per guarire il mondo del carcere dai suo veri mali: sovraffollamento e invivibilità. Prima dell’indulto si contavano 60mila detenuti in 208 case circondariali per una capienza regolamentare di 42mila unità. E ancora oggi, nell’80% dei casi, le norme che dal 2000 impongono condizioni di vita più umane nelle carceri sono disapplicate. E se il provvedimento di clemenza varato di recente ha tamponato le ferite, facendo respirare un po’ le celle, l’emorragia può essere riaperta dalle leggi ancora in vigore: la ex-Cirielli, tanto per comiciare, nella parte in cui prevede il carcere per i recidivi, ma anche la Fini-Giovanardi sulle droghe e la Bossi-Fini sull’immigrazione. Trappole che rischiano di vanificare gli sforzi fatti fnora.

Ma la vera stella polare, concordano Antigone, Arci, Ds e Rifondazione, è la riforma urgente e rapida del codice penale a cui sta lavorando la commissione giustizia sotto la guida di Giuliano Pisapia. Un nuovo codice ispirato alla differenziazione delle sanzioni, in cui la reclusione sia solo una delle ipotesi. E che il carcere non sia “la” soluzione lo confermano del resto i dati snocciolati proprio ieri al meeting di Rimini da Luigi Manconi, sottosegretario alla Giustizia con delega agli affari penitenziari: «Il rischio di recidiva è esponenzialmente inferiore per chi è condannato a misure alternative alla detenzione rispetto a chi è recluso in carcere. Sembrerà strano ma solo l’1,3% dei condannati alle misure alternative viola i vincoli». Basterebbe non avere i paraocchi, rilancia dal Prc Daniele Farina, e non «assecondare le pulsioni securitarie della destra che hanno prodotto solo disastri». Già, perché il problema è anche culturale e, come sottolinea l’Arci, sarebbe opportuno convincere l’opinione pubblica che la galera non è l’unico modo per riparare ai torti: «Serve un nuovo linguaggio, bisogna parlare di risarcimento alla collettività e non solo di punizione».