Ma che cosa ha in serbo Massimo D’Alema?

Dal vertice Nato di Riga è venuta una novità: l’apertura ai piccoli staterelli dei Balcani eredi etnici della distrutta ex Jugoslavia. Con l’accettazione all’ingresso a pieno titolo nell’Alleanza per Croazia, Albania e Macedonia e, fatto davvero rilevante, con la proposta di adesione a Serbia, Bosnia Erzegovina e al neoindipendente Montenegro alla Partnership for peace, primo passo verso l’ammissione nel club militare dell’Occidente che, tra i suoi tanti intendimenti, aspira ormai a surrogare le traballanti Nazioni unite.
Avviene con questi paesi, piccoli, poveri e in frantumi, quel che già accade per la Turchia da cinquanta anni. Sono cioè paesi che, quanto a garanzie democratiche, rispetto dei diritti umani e delle minoranze, sono considerati senza i requisiti necessari per poter entrare nell’Unione europea. Ma dal punto di vista dell’operatività militare vanno benissimo per l’Alleanza atlantica. Un doppio standard che – come già accaduto per Ungheria, Romania, Repubblica ceca, Bulgaria e Paesi Baltici – è tornato utile ma presenta effetti devastanti, sia internamente con la riduzione netta dell’autonomia dei vari paesi sempre più soggetti a nuove, gravose spese militari; sia internazionalmente. Come ha dimostrato nel 2004 George W. Bush che, di fronte al rifiuto a partecipare alla guerra in Iraq del Vecchio Continente – ad eccezione della Gran Bretagna – aprì le fila dei contingenti in armi a Baghdad proprio agli eserciti bulgari, cechi, romeni, ungheresi, estoni ecc. ecc. Gli stessi dell’ex Patto di Varsavia, orfani a quanto pare di una guida militare imperiale.
Stavolta l’operazione è simile, ma con un doppio scopo. Simile, perché per alcuni di questi piccoli staterelli, segnatamente per quelli considerati con maggiore storia militare – pensiamo alla Serbia – l’idea è davvero quella di coinvolgere uomini e mezzi negli attuali scenari atlantici, primo fra tutti l’Afghanistan. Non è una barzelletta, ma da molti mesi giace nel parlamento di Belgrado la richiesta, sollecitata dall’Amministrazione Usa, dell’invio di soldati in Iraq e in Afghanistan, una sollecitazione ripetuta più volte sia al governo che alla presidenza della Serbia come ha scritto addirittura il Financial Times.
E ora in Serbia l’offerta di Partnership della Nato viene accolta con euforia. Ma con due interpretazioni diverse se non contrapposte, del primo ministro Vojislav Kostunica, nazionalista moderato, e del presidente serbo Boris Tadic, liberale e apertamente filoccidentale. Il primo ci ha letto lo «spirare di un vento nuovo», il fallimento di quella che ha chiamato «l’erronea strategia dei condizionamenti» che ha portato nei mesi scorsi alla sospensione delle procedure di associazione con l’Ue a causa del mancato arresto dei due super-ricercati per crimini di guerra Ratko Mladic e Radovan Karadzic – non è un caso che contro l’apertura della Nato abbia protestato con durezza Carla Del Ponte, procuratore del fallimentare Tribunale dell’Aja.
Kostunica, impegnato a mantenere il Kosovo alla Serbia, si è però augurato che la nuova prossimità all’Alleanza atlantica sia un punto a favore «dell’integrità territoriale della Serbia» con chiaro riferimento al Kosovo – che secondo la risoluzione Onu 1244 che fece proprio il trattato di Kumanovo che pose fine alla guerra di bombardamenti aerei sulla Serbia, è ancora provincia autonoma della Serbia. Boris Tadic ha giocato invece la decisione di Riga in chiave interna, a meno di due mesi dalle elezioni politiche del 21 gennaio 2007 che decideranno fra l’altro l’atteggiamento definitivo di Belgrado sul Kosovo. La decisione finale di proclamarne l’indipendenza è stata rimandata a dopo il voto dalla comunità internazionale, proprio perché non influenzasse il risultato a Belgrado, favorendo il voto di protesta per i partiti ultranazionalisti. Per Tadic da Riga viene un messaggio «contro ogni ipotesi nostalgica di ritorno al passato», ammonendo poi che i criminali di guerra devono essere consegnati all’Aja. Così il presidente serbo, alla fine, ha fatto di più. Il giorno dopo ha inaugurato la sede e le nuove insegne del rinnovato corpo d’élite della «Guardia nazionale serba», non solo il cuore di quello che fu l’Armata popolare jugoslava, ma il nocciolo duro serbo della guerra interetnica degli anni Novanta. I «migliori soldati del mondo» secondo lo stato maggiore statunitense. Gli stessi che, esperti della lotta partigiana, addestrarono i movimenti legati ai Non Allineati a partire dai combattenti vietnamiti. Ora saranno riciclati nelle nuove guerre dell’Occidente a corto di truppe che salva, pericolosamente per i tempi attuali, il ruolo di baluardo contro l’impero ottomano e l’Islam che fu storicamente della Serbia.
Protagonista della svolta atlantica è stato il ministro degli esteri italiano Massimo D’Alema che pensa a questa proposta come ad un risarcimento preventivo per i serbi in vista del riconoscimento – a marzo, appena dopo il voto a Belgrado – di una qualche forma d’indipendenza etnica per il Kosovo solo albanese. Per la quale premono a Pristina ormai con mobilitazioni e attentati e verso la quale c’è invece l’ostilità della Russia che vede in questo un «grave precedente» per altre aree, come il Caucaso, e una rimessa in discussione dei confini internazionali dopo la Seconda guerra mondiale. D’Alema sarà domani a Belgrado ad inaugurare fra l’altro il nuovo centro culturale di «Palazzo Italia».
E pensare che ai serbi per rifiutare l’abbraccio mortale della Nato che li vuole sempre come i mercenari degli imperi centrali, basterebbe guardarsi attorno per accorgersi di quanto la Nato sia già «entrata» nel loro futuro. Non dimenticando le vittime civili e le distruzioni di gran parte delle infrastrutture grazie ai bombardamenti «umanitari» della Nato nel 1999; a cui è seguita l’occupazione militare della Kfor-Nato del Kosovo, dove sotto gli occhi dei contingenti atlantici si è consumata una nuova, sanguinosa contropulizia etnica a danno dei serbi e dei monasteri ortodossi, come denuncia anche Amnesty International; e dove, a Camp Bondsteel (Urosevac) gli Stati uniti, contro ogni accordo di pace, hanno edificato una mega-base militare.
Arriva D’Alema a Belgrado, mentore dell’apertura di Riga. Timeo Danaos et dona ferentes.