Ma che c’è dentro il «cuneo»?

Il dissidio sul «cuneo fiscale» sarà di lunga durata, e lo conferma indirettamente il governo precisando che questo taglio del costo del lavoro sarà approvato «con la finanziaria e non con la manovra bis». Insomma, il provvedimento che agita la Confindustria e per ragioni opposte preoccupa i sindacati, slitta all’anno prossimo. Ma, se di «finanziaria» si tratta, allora le avvisaglie potranno già leggersi in qualche modo nel Dpef, in allestimento adesso. E allarma che Padoa Schioppa sembri preferire un intervento «non» sulle tasse ma sulla spesa sociale.
Perciò vale la pena ricordare di che cosa sia formato il cuneo fiscale e contributivo (ossia la differenza fra il costo del lavoro pagato dall’impresa per salario e sicurezza sociale di ciascun dipendente, e il reddito netto in tasca al lavoratore). Soldi qualitativamente rilevanti perché riguardano molti contributi sociali.
Il «cuneo», infatti, che incide per circa il 40% sul costo del lavoro pagato dalle imprese, registra come voce più grossa il contributo pensionistico: che incide per il 33% – di cui il lavoratore paga il 9% . Ma ci sono anche altri contributi sociali – questi a carico delle sole imprese – con percentuali variabili da settore a settore, di cui le più alte pagate per gli operai dell’industria e i lavoratori dell’edilizia. Queste altre voci sociali riguardano: la disoccupazione, gli assegni familiari, la cassa integrazione ordinaria, l’indennità economica di malattia, e quella per la maternità.
Ora, i sindacati, contrarissimi a toccare in qualunque modo le pensioni, sono di conseguenza contrari a intervenire sul contributo previdenziale del «cuneo»; e assicurano di trovarsi in sintonia, sulla questione, anche con «i tecnici di governo». E però, sentendosi investiti della responsabilità di contribuire alla rimessa in moto dell’azienda Italia, cercano di prodursi in conti e ipotesi per salvare il salvabile. Che poi Cgil e Cisl possano contrapporre possibili riduzioni di cuneo o di Irap è solo il segno della pressione cui si sentono sottoposte: come dire, si soffre meno a tagliuzzare un piede o un ‘orecchio? – che a dire il vero riguardano direttamente il corpo dei lavoratori, a nome dei quali i sindacati si apprestano a «dialogare», concertare, con governo e imprenditori. Chiedendo in cambio per i lavoratori riduzioni sull’irpef.
Così per ridurre il costo del lavoro nel «cuneo fiscale», fatta salva l’intangibilità pensinistica, si cerca di dividere gli «altri contributi» tra quelli che si possono mettere a carico della fiscalità generale per la loro natura «sociale» o assistenziale, e invece quelli che devono rimanere in carico alle aziende (prevedendo magari altri tipi di ‘vantaggi’) perché di natura «assicurativa».
Così non può passare alla fiscalità generale la cassa integrazione – perché «evento» di rischio della condizione di lavoro legato alle scelte e necessità dell’impresa; e lo stesso vale per la disoccupazione per chi ha un lavoro a tempo indeterminato.
Invece la disoccupazione per chi lavora a termine – non rischio ma certezza per la stessa definizione del contratto – potrebbe viceversa passare alla fiscalità generale; e così la maternità («valore sociale»). La malattia ha invece carattere assicurativo: già le imprese pagano direttamente impiegati e dirigenti quando malati, mentre per gli operai pagano un piccolo contributo all’Inps, che dà un’indennità sostitutiva.