Ma Bush sogna ancora la vittoria

Il presidente statunitense, George W. Bush, non ne vuole sentir parlare di riportare indietro da Baghdad – come consigliato dal gruppo di studio sull’Iraq – una metà del contingente Usa impegnato in Mesopotamia (140.000 soldati circa). Nel suo tradizionale discorso del sabato alla nazione, ieri Bush ha detto di essere contrario a qualsiasi ritiro prematuro ed ha aggiunto che a sua avviso «una vittoria» resta possibile. Mentre si moltiplicano le indiscrezioni su un imminente cambio di rotta dell’amministrazione statunitense nei confronti della crisi irachena, Bush si è comunque detto «incoraggiato» dal rapporto redatto dalla cosiddetta Commissione Baker-Hamilton, che esclude una partenza precipitosa delle truppe americane. Per la verità, il gruppo di studio – le cui conclusioni hanno avuto un’enorme eco internazionale – raccomanda un cambio radicale di strategia verso il problema «Iraq» e prospetta un ritiro progressivo statunitense a partire dalla metà del 2008. Nel suo discorso, Bush si è concentrato sulla raccomandazione a non effettuare ritiri precipitosi che avvantaggerebbero la violenza interconfessionale (tra sciiti e sunniti), e che destabilizzerebbero la regione, minacciando l’intera economia mondiale.
L’opinione pubblica statunitense è sempre più contraria all’occupazione dell’Iraq. Ieri anche il senatore repubblicano Gordon Smith, che a suo tempo aveva votato per l’invasione, ha voltato le spalle al presidente: la guerra «è assurda» e potrebbe addirittura essere «criminale», ha detto Smith. «Avrei votato diversamente se avessi saputo che il materiale di intelligence presentato all’epoca dal presidente George W. Bush agli americani non era accurato», ha concluso il senatore. «Stanco di veder morire dieci soldati americani al giorno», l’esponente repubblicano ha aggiunto: «È ora di tagliare la corda».
Ma per Bush le «singole voci» non contano e ieri ha insistito per derubricare anche il rapporto dell’Iraq study group a un singolo elemento di una complessità di fattori da esaminare tutti assieme: i rapporti del Pentagono, quelli del dipartimento di Stato e il Conisglio di sicurezza nazionale. «Voglio sentire tutti i pareri mentre prendo le decisioni per un nuovo corso in Iraq», ha affermato l’inquilino della Casa Bianca. «Questa settimana ho avuto importanti incontri alla Casa Bianca sulla situazione in Iraq», ha detto citando il colloquio con Abdul Aziz al Hakim, leader del partito sciita iracheno Sciiri, e con il primo ministro britannico Tony Blair.
Proprio con Blair, Bush dice di aver discusso del rapporto del gruppo bipartisan presieduto dall’ex segretario di Stato James Baker e dall’ex deputato democratico Lee Hamilton. Secondo Bush, che non cita in alcun modo il suggerimento di aprire diplomaticamente a Iran e Siria, il rapporto fornisce «un chiaro quadro della grave situazione in Iraq» e sostiene esplicitamente lo stesso obiettivo della sua amministrazione: un Iraq che possa «governarsi, sostenersi e difendersi da solo».
Il rapporto, ha fatto notare Bush, aggiunge che «questa definizione comporta un Iraq con un governo ampiamente rappresentativo che mantenga la propria integrità territoriale, sia in pace con i vicini, neghi asilo al terrorismo, e non brutalizzi il proprio popolo. Data l’attuale situazione in Iraq, il raggiungimento di questo obiettivo avrà bisogno di molto tempo e dipenderà in primo luogo dalle azioni del popolo iracheno».
«Concordo con questa valutazione», ha detto Bush, che si dichiara poi «incoraggiato» dal fatto che il rapporto metta in guardia dalle conseguenze di un ritiro precipitoso dall’Iraq. L’amministrazione americana sta rivedendo il rapporto «e considererà seriamente ogni raccomandazione», afferma Bush che ringrazia l’Iraqi Study Group per l’esempio di lavoro bipartisan. «Oggi è responsabilità di noi tutti a Washington, i repubblicani come i democratici, di riunirsi e trovare un grande consenso sul miglior modo di andare avanti», sottolinea il presidente.