Ma alla fine di chi è il capitale?

Anche io vorrei dire la mia sul dibattito innescato dalla “provocazione” di Cavallaro al popolo di Seattle (manifesto, 4 agosto). Ho studiato economia, ma non sono un economista. Tuttavia qualcosa mi ricordo della scienza triste. L’economia non è certamente una scienza esatta, per sua natura è molto politica, come si diceva una volta, ed è per questo che si presta a concezioni teoriche divergenti, pratiche contrastanti nonché dibattiti serrati.
L’intervento di Perugini e Musotti sul manifesto del 14 agosto mi pare possa collocarsi, nell’ambito di una grossolana distinzione di posizioni all’interno del dibattito, dalla parte degli economisti professionisti, quelli con i piedi per terra e pertanto un po’ inclini alla versione realpolitik dell’economia politica, versione che ne fa, appunto, una scienza triste. L’altra posizione potremmo definirla antieconomicistica, naif, utopistico/movimentista. Ad essa Cavallaro rimprovera il difetto di astrutturalità, la mancanza di strategia e progettualità.
L’intervento di Perugini e Musotti contiene alcune affermazioni plausibili, ma valide solo parzialmente, a livello settoriale. E’ vero che un abbattimento delle barriere al commercio potrebbe favorire l’agricoltura dei paesi non ricchi (come la Polonia) che hanno costi minori e praticano quindi prezzi minori e conseguentemente apportare beneficio alle popolazioni, soprattutto quelle meno abbienti, dei paesi ricchi importatori di derrate alimentari.
Ma più in generale, da un punto di vista intersettoriale, gli effetti della liberalizzazione del commercio non sono così virtuosi. Mi sembra infatti che la sua plausibilità si fondi sostanzialmente sul paradigma ricardiano dei costi comparati (ancora dominante, in qualche sua variante più o meno sofisticata, in seno al WTO) il quale implica una specializzazione produttiva dei vari paesi del mondo sulla base delle attuali prerogative tecnologiche.
Quindi i paesi ricchi e industrialmente sviluppati continuino a concentrarsi sui settori ad alta tecnologia e ad alto valore aggiunto, mentre ai paesi poveri non rimane che l’agricoltura e l’estrazione mineraria.
La logica dei costi comparati è statica e conservatrice: se ti costa relativamente meno produrre zucchero, produrrai zucchero e basta; le macchine agricole e i computer li produrrà qualcun altro che è più bravo di te a farli. Quindi levati dalla testa di poter sviluppare un’industria tua, è fatica sprecata, ti costerebbe troppo, ti conviene importare tutto ciò che non è zucchero.
Questo paradigma condanna all’eterno sottosviluppo chi è sottosviluppato, perché – come dimostra Cuba – esportando solo zucchero non si diventa ricchi, se bisogna importare tutto il resto. Qui veniamo alla questione delle ragioni di scambio. Perché chi esporta zucchero e importa macchine è povero e chi esporta macchine ed importa zucchero è ricco?
Non si dovrebbe nel medio-lungo periodo giungere a un equilibrio macroeconomico internazionale, con bilance dei pagamenti in pareggio e massimizzazione dei benefici per tutti i paesi?
Nella realtà siamo ben lontani da questo paradiso terrestre: il paese che esporta beni a più elevato contenuto tecnologico, già ricco, si arricchisce vieppiù, mentre il paese che esporta materie prime o prodotti agricoli, già povero, si impoverisce, in senso relativo, sempre di più. Di nuovo: perché? Perché le ragioni di scambio sono inique a causa di un difetto congenito dei mercati, di un’asimmetria stridente tra quelli dei beni ad alto contenuto tecnologico e quelli delle commodities.
I primi sono mercati di tipo prevalentemente oligopolistico (con varie forme e vari gradi di potere di mercato da parte delle imprese, fino al virtuale monopolio microsoftiano), mentre i secondi sono quasi a concorrenza perfetta a causa essenzialmente della frammentazione dell’offerta (l’eccezione dell’Opec conferma la regola ed è anzi la prova lampante dell’asimmetria di cui parlo).
In questo contesto un paese come il Ghana, che produce oro e cacao, deve sperare, per arricchirsi un po’, che una siccità o un parassita distruggano i raccolti di cacao dei paesi concorrenti (Brasile, Costa d’Avorio, Nigeria) e che l’irrazionalità dei mercati finanziari e degli investitori/speculatori spinga in alto il prezzo dell’oro. Ma non può sperare che tale desiderio si realizzi ogni anno. Di contro, potrebbe verificarsi che il parassita colpisca i raccolti del Ghana anziché quelli di altri paesi e che il prezzo dell’oro scenda anziché salire. Da una minima situazione di relativa agiatezza si passerebbe facilmente alla catastrofe.
La storia economica insegna che – se non si è tra i primi nello sviluppo industriale ed economico in generale – per intraprendere con qualche successo la via di uscita dalla povertà vi è una condizione necessaria, benché non sufficiente, costituita dal protezionismo. E’ quello che hanno fatto i paesi asiatici di recente industrializzazione, è quello che fece l’Italia a più riprese dalla fine dell’800.
Per un paese povero non ci sono tante speranze di uscire dal sottosviluppo se subisce la liberalizzazione esasperata del commercio, tanto più che la proprietà delle miniere e delle piantagioni è molto spesso di imprese multinazionali con poli decisionali nei paesi ricchi.
E qui si arriva al problema di fondo sollevato da Cavallaro nella sua iniziale “provocazione” marxiana: i popoli di Seattle e di Genova dovranno porsi, prima o poi, la questione del controllo sociale della produzione e quindi, in ultima analisi, quella della proprietà del capitale. Perché da questa dipendono in realtà tutte le altre questioni, a iniziare da quella distributiva ed ecologica.