Polemizzando col mio ultimo libro (Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci), senza neppure riuscire a scrivere correttamente il mio cognome, Rina Gagliardi fa un’affermazione perentoria, in base alla quale io sarei «tornato a occupare il ruolo di intellettuale di riferimento di Rifondazione comunista».
In realtà, per quattro numeri consecutivi Liberazione ha preso di mira il mio libro, talvolta con critiche legittime espresse da due stimati intellettuali (Liguori e Prestipino), in altri casi con insulti a opera di alcuni membri della redazione. Dopo di che, al sottoscritto è stato negato il diritto alla replica.
L’affermazione di Gagliardi va rovesciata: non sono io «l’intellettuale di riferimento del Prc», ma sono i due intellettuali ospitati su Liberazione a costituire il punto di riferimento di Rina Gagliardi, che in effetti, nello stroncare il mio libro, riprende gli argomenti da loro utilizzati.
Se non nuovi, sono almeno validi tali argomenti? Nella lettura della storia del movimento comunista io sarei responsabile di «storicismo giustificatorio» (Liguori) ovvero di «cattivo storicismo» e di «giustificazionismo» (Gagliardi).
Per la verità, a proposito di Katyn, il mio libro parla di «crimine» e di crimine «ingiustificabile» (p. 259). Si aggiunge però che gli Stati uniti non possono ergersi a maestri di moralità per il fatto che nel corso della guerra di Corea essi si sono resi responsabili di una Katyn su scala più larga. E’ lecito smascherare, in questo e in altri campi, l’ipocrisia morale che alimenta la buona coscienza e la bellicista missione imperiale dell’Occidente?
Più in generale, dopo aver sottolineato l’influenza dello stato d’eccezione nella tragedia della Russia sovietica, il mio libro osserva che «indubbio è anche il ruolo svolto dall’ideologia» e dai «ceti intellettuali e politici» espressi dal bolscevismo (pp. 104-5). Solo che l’ideologia da me presa di mira è l’«utopia astratta», e cioè l’aspirazione messianica a un mondo caratterizzato dal dileguare dello stato, della religione, della nazione, del mercato, della moneta. Liguori (e credo anche Gagliardi) difende invece l’utopia da me criticata in quanto «astratta» e prende di mira altri bersagli, ma non spiega perché il mio approccio dovrebbe essere più «giustificatorio» del suo. In ogni caso, il mio approccio mi sembra più corretto. Se riflettiamo sulla tragedia (e l’orrore) nella storia della Russia sovietica, nonostante i giganteschi processi di emancipazione da essa messi in atto a livello mondiale, siamo costretti a chiederci: l’attesa dell’estinzione dello stato ha reso più facile o più difficile la costruzione dello stato di diritto? Incontestabile è il peso funesto che la pretesa di cancellare ogni forma di mercato e di circolazione della moneta ha avuto nella Cambogia di Pol Pot.
Nel ricostruire la vicenda storica dell’Urss a sinistra si ama individuare in Stalin il capro espiatorio. Ho proceduto diversamente: prendendo le mosse dagli elementi di messianismo presenti in Marx e aggravati dall’orrore per la carneficina bellica, ho analizzato le debolezze della piattaforma teorica della dirigenza bolscevica nel suo complesso, nonché le contraddizioni e la guerra civile che infuriano al suo interno e che prolungano lo stato d’eccezione, portando all’estremo la violenza in esso insita. Se anche Stalin appare meno affetto di altri dall’«utopia astratta», a me pare che, mettendo in discussione (con modalità diverse) tutti i protagonisti di questo capitolo di storia, senza escludere neppure Marx, il mio approccio sia meno consolatorio (e meno «giustificatorio») dell’altro, che si limita a demonizzare uno solo dei protagonisti e per il resto ritiene che tutti gli altri siano innocenti, sicché i comunisti potrebbero tranquillamente riallacciarsi al 1924, all’anno fatale dell’ascesa di Stalin al potere: Heri dicebamus!
Il fatto è che contro di me viene agitata una categoria di cui non è mai chiarito il senso. Gramsci «giustifica» il giacobinismo; su il manifesto e su Liberazione è stata talvolta «giustificata» la Rivoluzione culturale, che pure oggi è spesso dipinta nei colori più foschi: darebbe prova di dogmatismo chi, senza entrare nel merito dei capitoli di storia di volta in volta discussi, attribuisse lo storicismo autentico a se stesso e lo «storicismo giustificatorio» e «cattivo» a quanti non sono d’accordo con lui!
Restano fermi gli angosciosi dilemmi morali che caratterizzano le grandi crisi storiche. Riprendendo e sottoscrivendo la previsione di Bucharin, il mio libro fa notare che la collettivizzazione dell’agricoltura imposta dall’alto e dall’esterno (e la connessa industrializzazione a tappe forzate) si risolve in una gigantesca «notte di S. Bartolomeo». Per un altro verso, però, ai giorni nostri una serie di storici eminenti ribadisce la tesi a suo tempo formulata dal grande A. Toynbee, secondo cui a rendere possibile Stalingrado e la disfatta inflitta alla barbarie nazista fu il percorso compiuto dall’Urss «dal 1928 al 1941».
I dilemmi morali non si pongono solo per l’Urss di Stalin. Vediamo in che modo un eminente filosofo, M. Walzer, giustifica (almeno nella loro fase iniziale) i bombardamenti terroristici scatenati dagli angloamericani nel corso della seconda guerra mondiale: il pericolo di trionfo del Terzo Reich determina un’«emergenza suprema», uno «stato di necessità»; ebbene, occorre prendere atto che «la necessità non conosce regole».
Certo, bombardamenti che mirano a uccidere e a terrorizzare la popolazione civile sono un crimine, e tuttavia: «Oso dire che la nostra storia verrebbe cancellata, e il nostro futuro compromesso, se non accettassi di assumermi il peso della criminalità qui e ora»; i dirigenti di un paese «possono sacrificare se stessi al fine di difendere la legge morale, ma non possono sacrificare i propri connazionali». Perché, nella loro campagna contro lo «storicismo giustificatorio» e «catttivo», i miei critici non se la prendono in primo luogo con il filosofo statunitense?