L’USO ECONOMICO DEL TERRORE

“Che cosa può ridurre drasticamente il deficit delle partite correnti americane, e per questa via eliminare i rischi più significativi per l’economia degli Stati Uniti e per il dollaro? La risposta è: un atto di guerra. L’ultima volta che gli USA hanno registrato un surplus delle partite correnti è stato nel 1991, quando il concorso dei Paesi esteri ai costi sostenuti dall’America per la guerra del Golfo ha contribuito a generare un avanzo di 3,7 milioni di dollari.”
(report caricato sul sito internet di Morgan Stanley, martedì 11 settembre, 7.30-8.00 [ora di New York])
“Senza l’11 settembre i mercati finanziari sarebbero oggi in una situazione di grande logoramento psicologico, di sfilacciamento lento, di speranza zero, una sindrome di tipo ‘giapponese’ con indici azionari al di sotto dei livelli attuali.
Il gap tra l’andamento prevedibile per il 2002 e quello che avremmo avuto senza le Twin Towers e’ destinato a crescere. Infatti le misure prese all’indomani degli attentati (taglio dei tassi, politiche fiscali, misure di sostegno alle industrie) erano gia’ state decise ma “sarebbero state prese gradualmente, alla spicciolata, con riluttanza e in extremis”.”
(ANSA: 18 ottobre 2001, ore 15:08)

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1. L’11 settembre e le borse. Ovvero: la catastrofe che non c’è

“Insieme alle Twin Towers sono crollate ieri le ultime speranze per evitare la recessione”: così proclamava il Sole 24 ore del 12 settembre. L’attentato, questa la tesi, avrebbe dato il colpo decisivo all’unico elemento che ancora impediva la recessione negli USA: i consumi privati. A prima vista, un ragionamento convincente. Però, a distanza di un mese, sull’Economist è possibile leggere che “la parte maggiore della caduta della fiducia dei consumatori americani in settembre si è verificata nei primi dieci giorni del mese”. Sorprendente, no?
In realtà, per chi abbia letto i reports degli analisti finanziari usciti a caldo dopo gli attentati dell’11 settembre, non c’è nessuna sorpresa. Infatti questi reports si guardavano bene dal tracciare un quadro completamente negativo della situazione post-attentati. Al contrario, distinguevano con attenzione tra i settori destinati a essere colpiti e quelli favoriti dagli eventi dell’11 settembre (e quindi tra i titoli di borsa da cui stare alla larga e quelli su cui speculare).
Tra i settori colpiti troviamo: le compagnie aeree, le compagnie assicurative, il settore turistico in generale, i beni di lusso (solo in parte) , le banche e le società finanziarie (soltanto nel caso che le borse subissero forti perdite).
Tra i settori favoriti ci sono invece: il petrolio, le risorse di base (a cominciare dall’oro, classico bene di rifugio in caso di crisi politico-militare), il settore della difesa, il settore dell’elettronica (hardware e software), la logistica, le costruzioni.
Chi avesse seguito questi consigli, si sarebbe in genere trovato piuttosto bene. Infatti, per quanto riguarda il settore dell’elettronica, a un mese dall’attentato la Cisco System era cresciuta del 17%, Oracle del 30%, QLogic del 38%, Uniphase del 46%. Più in generale, l’indice delle società tecnologiche quotate a Wall Street (il DJ Stoxx Technology) era cresciuto del 35% in un mese. Per non parlare della difesa. La Lockheed Martin (che produce aerei da guerra) alla riapertura della Borsa di New York è cresciuta in un solo giorno del +19%. Ma anche altri titoli del settore si sono comportati molto bene nel mese successivo all’attentato: Raytheon (che produce i missili Tomahawk) + 43%; Northrop Corporation (che costruisce bombe per i bombardieri invisibili B-2 ed è leader nelle tecnologie di sorveglianza elettronica) +33%. Ma anche la Boeing, che in teoria dovrebbe patire molto della crisi dell’aeronautica civile, conta di rifarsi delle perdite previste in questo settore con la costruzione di aerei militari e di ordigni bellici (tra l’altro, sta lavorando ad un prototipo di aereo da guerra completamente radiocomandato). Per avere un’idea dell’euforia che si respira in questo momento nel settore della difesa, basti dire che la United Defense (che produce armamenti per l’esercito statunitense) il 23 ottobre ha fatto richiesta di ammissione alla Borsa di New York: non succedeva da oltre 3 anni.
E per quanto riguarda i titoli dei settori colpiti? Anche in questo caso le previsioni (questa volta negative) sono state rispettate. Però – circostanza degna di nota – a questo proposito gli analisti finanziari invitavano alla prudenza (ossia a non vendere i titoli a qualsiasi prezzo). Per un motivo molto semplice: diversi di questi titoli avevano già perso terreno nella settimana precedente l’attentato.

2. Finanza e terrore

Che qualcuno, tra i titoli colpiti dalle conseguenze dell’attentato, fosse stato venduto a man bassa la settimana prima, pare certo. La cosa è apparsa subito così evidente che in un report della JPMorgan Chase pubblicato il giorno dopo l’attentato leggiamo testualmente: “crediamo che le forti perdite subite recentemente dai titoli assicurativi abbiano già in parte scontato [have to an extent already discounted] l’impatto degli eventi di ieri”. Va notato che il termine “scontare” nel gergo finanziario è adoperato per designare movimenti di titoli che anticipano eventi che successivamente coinvolgeranno il titolo stesso: questi movimenti sono in genere causati da qualcuno che possiede informazioni riservate (insider trading) – mentre è ben raro che avvengano per motivi casuali. Anche per quanto riguarda i titoli dell’aeronautica civile più colpiti si erano avuti fenomeni di questo tipo. Del resto, lo stesso governatore della Bundesbank, Ernst Welteke, ha dichiarato che “sono stati scoperti indizi di transazioni che hanno potuto essere pianificate e realizzate solo avendo una certa conoscenza” preventiva di quanto sarebbe accaduto l’11 settembre. Non a caso la SEC americana ha messo sotto esame ben 28 titoli su cui si sarebbero avute operazioni sospette.
Non è mancato neppure chi ha ipotizzato che il vero movente dell’attentato fosse realizzare quei guadagni in Borsa: lo ha fatto nientemeno che il Ministro Martino. Probabilmente si tratta di una sciocchezza. Però pone l’accento su un problema reale: lo stretto nesso tra finanza e terrore. Questo nesso sussiste già solo per il fatto che la rete organizzativa necessaria per preparare un attentato come quello dell’11 settembre presuppone cospicui canali di finanziamento. Del resto, come si sa, il principale accusato degli attentati dell’11 settembre, Osama bin Laden, proviene da una delle più ricche famiglie dell’Arabia Saudita.
Una domanda sorge spontanea: quanto ci vuole a tagliargli i fondi? In realtà la cosa non è affatto facile. Per motivi di carattere generale e per motivi, diciamo così, più specifici.
I motivi di carattere generale discendono direttamente dal funzionamento stesso del sistema finanziario internazionale. Il capitale finanziario (più esattamente, in termini marxisti, “monetario”) ha infatti tra i suoi requisiti indispensabili la velocità – e ogni controllo, per definizione, rallenta i movimenti dei capitali. Ma ha anche un altro requisito: l’ossequio assoluto al principio del “non olet”. Questo principio, nato con l’imperatore Vespasiano, è un po’ l’emblema del capitale monopolistico finanziario. Il capitale deve “fruttare”: non importa da dove venga, importa solo dove “va” (ossia a quale ritmo riesca a valorizzarsi). I cosiddetti centri off-shore, cioè i paradisi fiscali nei quali si possono riservatamente depositare i propri soldi (guadagnati illecitamente o meno, non fa differenza…) per reinvestirli, non sono un “incidente di percorso”: sono uno snodo fondamentale per i flussi internazionali di capitale. Basti pensare che uno dei più importanti quotidiani finanziari del mondo, il Financial Times, dedica periodicamente a uno di questi centri, le Isole Cayman (isole caraibiche che hanno tuttora lo status di colonia britannica), un inserto della stessa dimensione di quello dedicato all’Italia o alla Spagna. Ma per trovare piazze finanziarie sospettate di favorire il riciclaggio di denaro sporco non è necessario andare sino ai Caraibi. Si può tranquillamente restare in Europa, e fare un salto in Svizzera o in Lichtenstein. Oppure a Londra. Lo dice un rapporto del Parlamento francese, pubblicato il 10 ottobre, dal titolo esplicito: “La City di Londra, Gibilterra e i domini della Corona: dei centri offshore, santuari del danaro sporco”. Il rapporto lancia pesanti accuse contro la City, definita “luogo di investimento” delle organizzazioni terroristiche, e contro le isole della Manica, definite “delle vere e proprie fabbriche per il riciclaggio dei soldi provenienti dal crimine” e ancora “veri e propri buchi neri della finanza mondiale”. Davvero niente male. Ma il meglio deve ancora venire. E consiste nella risposta che il Ministero del Tesoro inglese ha dato a questo rapporto: definendo le critiche infondate, in quanto… “si basano su elementi di 18 mesi fa [!!] e dunque superati sul fronte della regolamentazione finanziaria in vigore”! Se questi sono i presupposti, è ben difficile pensare che la “Santa Alleanza” proclamata dagli Stati Uniti contro i finanziatori dei terroristi possa avere successo. Del resto, la cosa è chiaramente messa in luce da un recente articolo dell’Economist, in cui si legge tra l’altro che “la pressione che i centri offshore dovranno fronteggiare nei prossimi mesi dipenderà da quanto in profondità i politici saranno disposti ad entrare nella privacy finanziaria delle persone”. Appunto.
Ma c’è anche qualche motivo più specifico che induce al pessimismo a questo proposito: ed è il fatto che tra i finanziatori di bin Laden e dei Talebani c’erano sino a ieri gli stessi Stati Uniti e Stati “amici” come il Pakistan e l’Arabia Saudita. Tanto per essere precisi, l’ultimo finanziamento degli Stati Uniti ai Talebani è stato effettuato nel maggio 2001 (per un valore di 43 milioni di dollari); quanto al Pakistan, basti dire che quando gli Stati Uniti, qualche settimana fa, hanno cominciato a dichiarare fuorilegge alcune pseudo associazioni umanitarie (che in realtà foraggiavano gli estremisti islamici di bin Laden), prima di rendere la cosa operativa hanno dovuto fare una telefonata di cortesia al generale Musharraf, suggerendogli di dimettersi dalla presidenza di una di queste!
Non c’è bisogno, credo, di aggiungere altro. Se non per rilevare che, con singolare tempismo, l’Italia del comitato d’affari berlusconiano ha deciso di entrare nel novero dei centri offshore, approvando ben due leggi che favoriscono di fatto la criminalità economica: la legge sulle rogatorie internazionali e quella sul rientro dei capitali. Della prima si è scritto molto. Della seconda si sa che è un vero insulto a chi paga le tasse; ma questa è solo una parte della verità. Perché, come ha dovuto ammettere lo stesso giornale della Confindustria, il punto è un altro: “non appare ben chiaro come si potranno distinguere le somme provenienti da una “semplice” evasione fiscale, da quelle frutto di altri più gravi delitti, come il riciclaggio o il traffico di droga”. No comment.

3. La crisi che c’è e la “scusa bin Laden”

Ma torniamo al punto da cui eravamo partiti: è evidente che gli effetti economici dell’attentato non sono stati drammatici, fatta eccezione per alcuni settori specifici (quale ad es. l’aeronautica civile – che peraltro versava in una crisi profonda già prima dell’attentato). Del resto, lo stesso presidente della Bundesbank, Ernst Welteke, il 22 ottobre ha definito “relativamente modeste” le conseguenze economiche dell’attacco terroristico dell’11 settembre.
Questo significa una cosa sola: che la crisi c’era già prima. La situazione, infatti, era questa: USA ormai in recessione, Giappone in stagnazione (ormai da molto tempo), Paesi del Sud Est asiatico già colpiti dal calo degli ordini americani, Europa anch’essa in forte rallentamento.
Proprio il giorno prima dell’attentato la Banca dei Regolamenti Internazionali aveva pubblicato il rapporto relativo al secondo trimestre del 2001. Un rapporto ben poco confortante, così sintetizzato dalle agenzie di stampa: “il colpo di freno dell’economia mondiale nel secondo trimestre emerge nettamente dall’andamento del mercato finanziario”, che segnala un chiaro “rallentamento della domanda di prestiti per nuovi investimenti. La BRI osserva anche il riemergere, temporaneo, dell”effetto contagio’, vero spauracchio dei mercati finanziari”.
Ma non è tutto. Appena tre giorni dopo l’attentato la Federal Reserve pubblicava alcuni dati relativi sulla produzione americana nel mese di agosto. Che in un solo colpo battevano due record negativi:
a) la produzione industriale americana segnava un calo dello 0,8% (calo tendenziale del 4,8% su base annua). Era l’undicesimo calo consecutivo: un andamento così negativo non si registrava dal 1960;
b) era in calo anche il tasso di utilizzo degli impianti, tornato ai minimi del 1983 (tra le industrie manifatturiere era sceso al 74,6% dal 75,5% precedente). In pratica la capacità produttiva inutilizzata era ormai superiore al 25% del totale.
La conclusione è obbligata: eravamo – siamo – in presenza di una classica crisi da sovrapproduzione. Per di più, con l’aggravante di essere sincronizzata tra le principali economie mondiali. Gli andamenti dei mercati azionari (negativi dal marzo 2000) non erano quindi che il riflesso di questo stato di cose.
Con l’11 settembre entra in gioco la “scusa bin Laden”. La definizione è dell’Economist, che la spiega così: “le imprese stanno già citando gli attacchi terroristici come motivo per far saltare fusioni, tagliare posti di lavoro e abbandonare nuovi progetti di investimento”. In parole povere: una crisi già in atto viene addebitata all’attentato.
Questo è accaduto negli USA, ma anche in Italia, dove, da un giorno all’altro, il commercialista Tremonti è passato dagli sproloqui sul “miracolo economico” ad un’affermazione come questa: “siamo di fronte a una possibile recessione”. Anche l’azionista di maggioranza del governo, il Presidente della FIAT Paolo Fresco, ha sostenuto che “il miracolo economico” era una prospettiva “probabile prima dell’11 settembre”. Per confutare queste sciocchezze (interessate) basta il buon senso: se, per limitarsi ad un esempio, l’UCIMU (l’associazione che raggruppa i produttori italiani di macchine utensili) il 17 ottobre prevede per il 2001 una flessione degli ordini del 25% rispetto all’anno precedente, è ben difficile credere che un calo della domanda di queste proporzioni possa essere maturato in un solo mese…
Le imprese, dal canto loro, cominciano ad annunciare cali di utili, tagli di produzione, licenziamenti (100.000 in un a settimana nel solo settore aereo statunitense!), rinuncia a nuovi investimenti già annunciati, addebitandoli invariabilmente all’attentato.
Non manca neppure chi teorizza questi atti di vero e proprio sciacallaggio economico: “volendo vedere le cose in positivo, la deriva recessiva imboccata dall’economia mondiale può costituire per molte aziende un’ottima occasione per fare pulizia addossando alla situazione internazionale l’impossibilità di rispettare i target annunciati, e che forse non sarebbero stati conseguiti comunque. Oppure può dare la spinta decisiva verso processi di ristrutturazione e di concentrazione che altrimenti sarebbero stati rinviati per chissà quanto tempo ancora”.
Dalla teoria alla prassi: l’Avvocato non si fa pregare, e il 4 ottobre annuncia che la FIAT produrrà 100.000 auto in meno a causa della crisi seguita all’attentato. Peccato che la Banca IMI, di cui tra l’altro la famiglia Agnelli è azionista, in un report immediatamente successivo all’attentato avesse scritto testualmente che “il settore dell’auto ha un’esposizione sull’estero relativamente bassa e dovrebbe quindi essere toccato solo marginalmente dagli eventi negli Stati Uniti”! Del resto, la decisione di mettere in cassa integrazione 35.000 dipendenti FIAT era stata già assunta a settembre…
Secondo un vecchio copione, vengono subito sollecitati allo Stato iniziative e contributi alle imprese, spesso anche per settori che con l’attentato hanno ben poco a che fare. Il segnale lo danno gli USA. Dall’accelerazione sui negoziati per un area interamericana di libero scambio alla ripresa delle trivellazioni petrolifere in Alaska, dal taglio delle tasse alle imprese al progetto di “scudo stellare” (di cui proprio l’attentato ha definitivamente dimostrato l’inutilità): tutto viene proposto come “il modo migliore per rispondere all’11 settembre”.
Così avviene anche in Italia, dove il Presidente della Confindustria D’Amato, il 13 settembre, non si lascia sfuggire l’occasione, e afferma che dopo gli attentati le prospettive richiedono “ancora più rigore, fermezza e determinazione” nella riforma delle pensioni (leggi: nello smantellamento del sistema pensionistico pubblico), nella flessibilità del lavoro (leggi: abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori), e nella lotta al sommerso. La “determinazione nella lotta al sommerso” può sorprendere. Ma si tratta uno scherzo: come ha poi chiarito il commercialista Tremonti, fedele esecutore degli ordini di Confindustria, la “determinazione nella lotta al sommerso” significa una proroga di sei mesi per la messa in regola di chi voglia emergere dal nero. L’argomentazione portata a supporto di questa decisione presentava un nesso suggestivo con le vicende belliche in corso: “Non siamo talebani fiscali: è ovvia la gradualità del provvedimento sull’emersione” (dichiarazioni dell’11 ottobre). In conclusione: il rigore e la fermezza spettano ai lavoratori, mentre per quanto riguarda le imprese che truffano il fisco (e i lavoratori) la situazione richiede, “ovviamente”, nuovi sconti!

4. “Comprate America!”, ovvero: il patriottismo degli speculatori di borsa

Alla riapertura della Borsa il 17 settembre (dopo 4 giorni di chiusura, per la prima volta dai tempi della Prima Guerra Mondiale) si temeva un crollo dei titoli. Quindi ci si è attrezzati, consentendo al mondo intero di scoprire inusitate forme di patriottismo.
Mentre il Presidente della Borsa americana, Dick Grasso, lanciava l’appello a “comprare l’America”, grandi investitori come Warren Buffett e come la famiglia Bass (azionisti Disney) esortavano a non vendere le azioni, dichiarando che avrebbero essi stessi dato il buon esempio. Detto fatto: appena due giorni dopo, mercoledì 19, lo stesso Buffett si tirava indietro dall’acquisto della società finanziaria Finova, peggiorando la dèbacle dei titoli assicurativi e finanziari; e la famiglia Bass, giovedì 20, faceva crollare il titolo Disney liquidando a prezzo di saldo 2 miliardi di dollari di azioni.
Più importanti e significative sono state altre iniziative, come le facilitazioni per i buy back (riacquisto di azioni proprie): per limitare i crolli in borsa le autorità di Borsa di New York hanno infatti reso meno rigorose le norme sul riacquisto di azioni proprie da parte delle società, sospendendo l’applicazione della sez. 10 del Securities Exchange Act (risalente agli anni Trenta). Programmi di buy back in grande stile sono stati annunciati da molte società, come Cisco, GE, Pepsi, Intel, FleetBoston e AIG. Siccome però questi programmi non sono vincolati ad una giornata di borsa particolare (possono avere anche un’orizzonte di 2 anni), le società hanno ottenuto in un colpo solo l’allentamento delle regole e la possibilità di ricomprare più facilmente dopo qualche tempo, quando il crollo abbia creato buone occasioni d’acquisto. In questo modo la crisi ha concretamente favorito la centralizzazione dei capitali.
Si è parlato di “allentamento delle regole”: però, come sapevano già i filosofi greci, anche l’omettere è un fare. Anche questo allentamento delle regole sui buy back è una delle manifestazioni del ruolo attivo che lo Stato intende giocare nella gestione della crisi economica in atto. L’avrebbe dovuto fare comunque, a dispetto dei programmi elettorali di Bush & C. L’attentato ne offre l’opportunità. Proprio questo è, dal punto di vista economico, il dato più rilevante del dopo 11 settembre.

5. Le decisioni di Greenspan & Bush

In effetti, l’attentato alle Twin Towers ha fatto il miracolo: ha trasformato i più convinti sostenitori del liberismo, della deregulation, della necessità di lasciare assoluta libertà agli “spiriti animali” del capitale, in entusiasti sostenitori del ruolo dello Stato nell’economia, del deficit spending, dei sussidi alle imprese.
Per avere una riprova di questo, è sufficiente considerare le misure per il rilancio dell’economia assunte sino ad oggi dalla Federal Reserve e dal governo americano:
a) i tassi di interesse sono stati portati ai minimi storici da 40 anni a questa parte;
b) sono state rilanciate le spese militari, stanziando fondi per la difesa che ammontano per il 2001 a 345 miliardi di dollari (cioè circa 700.000 miliardi di lire). L’aumento è di 100 miliardi di dollari rispetto all’anno scorso, e di 40 miliardi di dollari rispetto al budget. Queste spese sono state approvate all’inizio di ottobre dal Senato (dove la maggioranza è democratica) con 99 voti a favore, 0 contrari, 1 astenuto;
c) sono stati stanziati cospicui incentivi diretti alle imprese: la sola aviazione civile riceverà aiuti per 15 miliardi di dollari: 5 miliardi di sovvenzioni, e 10 di crediti con garanzia (warrant convertibili in azioni), ossia interventi nel capitale. Era dai tempi della crisi della Chrysler, negli anni Settanta, che il governo americano non effettuava interventi del genere. Il complesso di questi aiuti supera il valore attuale di borsa di American Airlines, United Airlines, Delta, US Airways, Northwest e Continental messe insieme.
d) sono state decise riduzioni delle tasse per 100 miliardi di dollari. E’ la maggiore manovra di tagli delle tasse dal 1975, e dovrebbe aggirarsi intorno al l’1,5% del PIL. Di questi sgravi, il 70% consiste in sgravi fiscali per le imprese e i capitali. Più precisamente:
– taglio delle tasse sui guadagni da capitale;
– aumento della quota di ammortamento degli investimenti;
– eliminazione della minimum tax aziendale, con tanto di rimborso di quanto pagato dalla sua introduzione (1986) ad oggi (costi stimati per lo Stato: 25 miliardi di dollari);
– sgravi fiscali sui redditi prodotti all’estero da multinazionali finanziarie (stima: 21 miliardi di dollari).
Una parte molto minore della manovra andrà a rimborsi delle tasse sui redditi più bassi, sussidi di disoccupazione e assistenza sanitaria. Si tratta, come è chiaro, di briciole. Va notato che questo aspetto della manovra è stato criticato anche dall’Economist, che ne ha visto i limiti ai fini del rilancio della domanda, mettendo in rilievo che “è più facile che vengano spesi [in consumi] i tagli delle tasse per i meno abbienti che i trasferimenti verso i ricchi, in quanto questi ultimi tendono a tesaurizzare una quota maggiore” delle tasse risparmiate. Non solo: i tagli sono “troppo focalizzati sulle imposte pagate dalle imprese”. Il rischio, insomma, sarebbe costituito da “un pacchetto di misure ispirato più all’ideologia che all’economia”. Ovviamente non è così: semplicemente, nella manovra decisa da Bush (così come del resto in quella dei Berluschini nostrani) parlano i concreti interessi di classe rappresentati. Che poi tali interessi non corrispondano agli “interessi generali della società”, non è davvero una novità.
Oltre a queste misure già messe in campo dallo Stato, è lecito prevedere anche un nuovo impulso al processo di concentrazione dei capitali. Processo, anche questo, spontaneo solo in parte: perché è vero che molte aziende falliranno, ma è anche vero che l’Antitrust americano ha già annunciato che sarà più “flessibile” rispetto a fusioni e acquisizioni.
Di passaggio, vale la pena di notare che tra i settori che più probabilmente saranno soggetti ad un processo di “consolidamento” (è l’eufemismo che gli economisti adoperano per non parlare di “concentrazione monopolistica”) non ci sono soltanto settori direttamente colpiti dagli attentati: ci sono infatti le linee aeree, ma anche i settori dei servizi finanziari e delle comunicazioni.
Per quanto riguarda le banche e società finanziarie, basteranno poche cifre: Merrill Lynch sta per varare la più pesante ristrutturazione della sua storia, licenziando 10.000 persone e uscendo da alcuni mercati esteri non più sufficientemente redditizi; gli utili di JPMorgan Chase nel terzo trimestre del 2001 sono scesi (rispetto allo stesso periodo del 2000) del 68%; quelli di Citigroup “soltanto” dell’8,8%.
Per quanto riguarda il settore delle telecomunicazioni, gli USA hanno perso la battaglia per le tecnologie più innovative rispetto alle imprese europee (e giapponesi) del settore; queste però hanno un debito molto elevato, che potrebbe mettere in forse l’esistenza di molte di esse.
Infine, il governo americano dichiara la sua intenzione di dare nuovo impulso al processo di liberalizzazione dei commerci mondiali.
In questa direzione vanno le dichiarazioni di Bush durante il vertice APEC di Shangai del 20 ottobre, dove il Presidente americano ha sostenuto che lo scopo dei terroristi era quello di ottenere “il collasso dei mercati mondiali”. “Ma i mercati – ha aggiunto – hanno dimostrato la loro resistenza e forza di fondo. E ha concluso: “sono qui per assicurare i nostri amici – e informare i nostri nemici – che l’avanzata del commercio e della libertà continuerà”.
Al di là dei proclami propagandistici, però, il punto è se in una situazione di recessione come l’attuale la liberalizzazione dei commerci sia ancora realmente conveniente per gli Stati Uniti. Le più recenti vicende, a cominciare dai dazi che gli USA vogliono imporre agli altri produttori di acciaio (ma anche le stesse sovvenzioni alle compagnie aeree), sembrano prospettare una risposta negativa a questa domanda. In altri termini, non è da escludere l’inizio di una nuova fase protezionistica nei commerci mondiali. Ancora una volta, comunque, è necessario insistere sul fatto che un marcato rallentamento degli scambi mondiali è già in atto, e che esso non è un risultato del terrorismo (e neppure delle manifestazioni “no-global”): per il 2001 si prevede infatti una crescita media degli scambi mondiali soltanto del 2%, a fronte del +13,4% del 2000, e con ben poche possibilità di ripresa nel 2002.

6. Oltre l’11 settembre: la guerra

In conclusione: che l’attentato dell’11 settembre, di fatto, abbia ridato fiato all’economia americana, è una tesi che, alla luce di quanto si è visto sopra, non dovrebbe sembrare paradossale. Ma, soprattutto, è una tesi che ormai viene proposta alla luce del sole da insospettabili analisti finanziari.
Il problema però è un altro: questo insieme di misure potrà bastare ad allontanare (o anche soltanto a mitigare) la crisi che è in atto? E’ lecito dubitarne. Il primo a nutrire dei dubbi al riguardo è l’Economist. Che pronuncia a tutta voce la paroletta che da sempre incute terrore ai capitalisti di tutto il mondo: “sovraccapacità”. E la getta in faccia agli analisti che pronosticano una rapida ripresa dell’economia: “il problema è che la sovracapacità resta grande”. In altre parole: siamo in presenza di una crisi da sovrapproduzione che è ben lontana dall’essere risolta.
Per capire la gravità di questa crisi basteranno pochi dati:
– le cifre sul rallentamento della produzione e sul basso livello di utilizzo degli impianti citate più sopra;
– il calo medio dei profitti delle 500 imprese dell’indice Standard & Poor’s nel secondo trimestre di quest’anno: – 60%. Facendo una media (e presupponendo che la situazione non peggiori) si giunge a un dato annualizzato di – 30%: si tratta del dato peggiore dagli Anni Trenta in poi. Di fatto, oggi “i profitti si trovano al livello più basso da mezzo secolo a questa parte”.
– l’elevato indebitamento delle imprese, che oggi è pari al 2,5% dell’intero PIL americano.
– il fatto che si tratta di una crisi “sincronizzata” a livello mondiale. Una crisi, cioè, che coinvolge contemporaneamente tutte le aree economiche del mondo. Tanto da far affermare all’Economist che “le stime del gap dell’output (cioè di quanto la produzione è al di sotto del suo potenziale) a livello mondiale suggeriscono che esso oggi sia al suo livello massimo dagli Anni Trenta”.
In definitiva – è ancora l’Economist che parla – “la ragione più importante per pensare che le previsioni degli analisti sull’economia americana siano troppo ottimistiche consiste nel fatto che questa crisi non trova le sue radici nel terrorismo, ma negli squilibri economici e finanziari creatisi nei tardi anni Novanta”. Come volevasi dimostrare. Ma allora che si fa? La risposta americana è sotto i nostri occhi, e consiste nel gigantesco piano di riarmo messo in opera in questi mesi e nell’attacco all’Afghanistan.
Ancora una volta, per risolvere i suoi problemi il capitalismo ricorre alla guerra.