L’uomo che ha afferrato il fulmine a mani nude

Ho riflettuto a lungo sul perché, pensando a Antonio Gramsci, scatti in me, subito, per istinto, un titolo: la figura del grande italiano. Sarà che questo nostro paese continua a metterci di fronte una sostanziale ambiguità: da un lato la debolezza politica della storia italiana, dall’altro lato il paese forse più politico del mondo, in tutte le sue componenti sociali e popolari. Noi abbiamo inventato la politica per la modernità. Ne abbiamo fatto una forma, privilegiata, e un’espressione, intensa, di pensiero umano. Perché Gramsci ha così a lungo pensato su Machiavelli? Intanto: il grande italiano è l’uomo del Rinascimento. Dietro c’era la stagione magica che, fra Trecento e Quattrocento, aveva visto svolgersi quella contraddizione lancinante, fondativa della nostra successiva natura, la contraddizione tra una storia d’Italia, ancora molto lontana dal presentarsi come tale, e una poesia, una letteratura, un’arte, una filosofia, già italiane, in forme dispiegate e mature, con, in più, una naturale vocazione universalistica. Recitavamo, per l’intero mondo, l’Oratio de hominis digitate. Quello che Pico diceva, Piero raffigurava. Ecco, Machiavelli viene fuori da qui. L’invenzione della politica moderna viene fuori da qui: dal contesto storico tra Umanesimo e Rinascimento. Di qui, la nobiltà del suo codice genetico.
Il moderno Principe
Uno di quei volumi Einaudi, dalla copertina grigio-scura, che presentavano, per la prima volta, i Quaderni del carcere di Gramsci, portava per titolo: Note su Machiavelli sulla politica e sullo Stato moderno. Era il 1953. Come Machiavelli aveva chiosato la prima decade di Tito Livio, così Gramsci chiosa Il Principe. Geniale la sua interpretazione del partito politico come moderno principe. Credo, ancora di una sconvolgente attualità. «Il moderno principe, non può essere una persona reale, un individuo concreto; può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva, riconosciuta e affermatasi parzialmente nell’azione. Questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico; la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali». Non è il caso di nascondere le ombre che il tempo storico allunga su questa luce di pensiero. Non è un’orazione apologetica che ci interessa: il distacco critico dagli autori, tanto più dai propri autori, è un obbligo intellettuale. Quell’aggettivo «totali» fa riflettere. La storia del partito politico nel Novecento ha messo in campo progetti universalizzanti ma ha anche raccolto risultati totalizzanti. Marx e Machiavelli vuol dire «il partito non come categoria sociologica, ma il partito che vuole fondare lo Stato»: fondare lo Stato, non farsi Stato.
Non è questo però il punto centrale dell’argomentazione gramsciana. Gramsci aveva profeticamente previsto le possibili degenerazioni del partito che si fa Stato, cioè della parte che si fa tutto. E ne aveva sofferto, in carcere, non solo intellettualmente. Il suo problema politico era già allora, nella temperie terribile di quegli anni Trenta, come sfuggire alla trasformazione, non più incombente ma in atto, delle masse in folle manovrate e delle élites in oligarchie ristrette. Il problema originalmente comunista di Gramsci – vorrei dire, se questo non disturba troppo, l’originale leninismo di Gramsci – è la costruzione di un rapporto virtuoso tra classe dirigente e classe sociale. Il mito – usa lui questa parola e voglio usarla anch’io – del partito-principe è l’organizzazione di una volontà collettiva, «elemento di società complesso», come l’unica forza in grado di contrastare l’avvento della personalità autoritaria. Anche qui de nobis fabula narratur . Io penso che oggi noi dovremmo rideclinare le analisi dei francofortesi intorno alla personalità autoritaria sulla misura di un nuovo soggetto, che definirei personalità democratica. Si sta intrecciando qui un nodo di problemi strategicamente rilevanti per i sistemi politici contemporanei. Attenzione: questa invocazione del leader forte non nasconde pericoli autoritari – la liberale bilancia dei poteri funziona ancora – piuttosto fa vedere il pericolo di una delega diretta, immediatistica, al decisore politico, questa volta un individuo e non un organismo, da parte di una moltitudine formata da una cosiddetta gente, dai forti umori antipolitici.
Nato per l’azione
Antonio Gramsci – da mettere in una ideale galleria di grandi italiani del Novecento politico, di tradizione cattolica e liberale, da Sturzo a Dossetti a Einaudi – questi uomini postumi per le loro virtù, servono, vanno fatti servire, come vaccino contro le malattie contagiose delle democrazie contemporanee: l’antipolitica, il populismo, il plebiscitarismo. La personalità democratica come personalità non carismatica e tuttavia demagogica, eterodiretta dalla sua immagine, in sudditanza rispetto alla dittatura della comunicazione, onnipresente come figura, inconsistente come persona.
A questo punto vorrei non dare l’impressione di edulcorare il personaggio Gramsci, iscrivendolo nel ruolo non esaltante di Padre della Patria. Non si può parlare di Gramsci restando neutrali. Scrisse di sé, dal fondo del carcere fascista: «Io sono un combattente, che non ha avuto fortuna nella lotta pratica». Non era un’anima bella. Nato per l’azione, circostanze esterne lo costringono a diventare uomo di studio. Se dovessi riassumere in una definizione l’insegnamento che Gramsci ci lascia, direi così: come un uomo di parte possa diventare risorsa della nazione, senza dismettere la propria appartenenza, ma agendola nell’interesse di tutti. Gramsci ci dice che, machiavellianamente, la politica non ha bisogno dell’etica per nobilitarsi. Si nobilita da sé, sollevandosi a progetto altamente umano.
Gramsci non è solo i Quaderni del carcere. C’è un Gramsci giovane che si fa amare, se possibile, ancora di più. Lo scoprimmo nei magici anni Sessanta, quando fummo forse ingenerosamente ostili alla sua linea culturale «nazionale-popolare», la famosa linea De Sanctis-Labriola-Croce-Gramsci, a cui rivolgevamo l’accusa di aver oscurato la grande cultura novecentesca mitteleuropea, che fummo costretti a scoprire per altre vie. Ci bevevamo gli articoli scritti per la rubrica «Sotto la mole» per l’edizione piemontese dell’Avanti! O sulla Città futura numero unico della Federazione giovanile socialista piemontese. Qui quell’articolo (febbraio 1917) che comincia con le parole: «Odio gli indifferenti»: «Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo». O gli articoli su Il grido del popolo, quello famoso e scandaloso: «La rivoluzione contro il Capitale». La rivoluzione dei bolscevichi contro Il Capitale di Carlo Marx. Se si potessero rileggere, oggi, senza il velo delle ideologie dominanti, quelle righe in Individualismo e collettivismo! «All’individuo capitalista si contrappone l’individuo-associazione, al bottegaio la cooperativa: il sindacato diventa un individuo collettivo che svecchia la libera concorrenza, la obbliga a forme nuove di libertà e di attività». E soprattutto gli articoli de L’ordine nuovo, settimanale di cultura socialista, che Gramsci fonda il 1 maggio 1919 e che poi diventerà quotidiano. Lì si organizza il gruppo che darà vita al Partito comunista d’Italia, che come si vede non subito ma fin dalle tesi di Lione del 1926, nascerà non solo contro i riformisti ma anche contro i massimalisti.
Gramsci nasce, politicamente e intellettualmente, a Torino. Davanti a lui, il biennio rosso, l’occupazione operaia delle fabbriche, l’esperienza dei consigli operai. La vera università: la grande scuola della classe operaia. Del resto, ormai lo sappiamo: o si parte da lì, o si raggiungono solo quelli che oggi si chiamano non-luoghi. L’ordine Nuovo, settembre 1920: «L’operaio comunista che per settimane, per mesi, per anni, disinteressatamente, dopo otto ore di lavoro in fabbrica, lavora altre otto ore per il Partito, per il sindacato, per la cooperativa, è, dal punto di vista della storia dell’uomo, più grande dello schiavo o dell’artigiano che sfidava ogni pericolo per recarsi al convegno clandestino della preghiera». Già Togliatti, nel ricordo che scriveva, nel 1937, appena dopo la morte di Gramsci, diceva: «Il legame di Antonio Gramsci con gli operai di Torino non fu soltanto un legame politico, ma un legame personale, fisico, diretto, multiforme».
Tra direzione e comando
Non ci sono due Gramsci. L’operazione di valutare il Gramsci studioso e di svalutare il Gramsci politico è senso comune intellettuale corrente, e come tale va abbandonato a se stesso. Specialista + politico è formula gramsciana risolutiva. Dalla tecnica-lavoro alla tecnica-scienza e di qui alla concezione umanistica-storica, senza la quale si rimane specialista e non si diventa dirigente. Il modo di essere del nuovo intellettuale sta nel mescolarsi attivamente nella vita pratica, come costruttore, organizzatore, persuasore, non puro oratore. Quindi, per Gramsci, l’equivalente di politico è dirigente, armato però di cultura tecnica, scientifica, umanistica. Qui c’è la preziosa distinzione gramsciana tra direzione e comando, tra guidare e imporre. Questo vale per il gruppo dirigente nei confronti del partito, vale per il partito nei confronti dello Stato, vale per lo Stato nei confronti della società.
Egemonia non è solo cosa diversa, è cosa opposta a dittatura. Sul concetto di egemonia pesa ancora un’incomprensione di fondo e una falsificazione di fatto. Non c’è pratica di egemonia senza espressione di cultura. Praticare egemonia è una cosa molto complessa, direi raffinata: vuol dire guidare seguendo, essere alla testa di un corso storico già in movimento, e che fa movimento anche in virtù delle idee, idee-guida, idee-forza che tu ci metti dentro. Una politica senza cultura politica, non cercatela in Gramsci. Scriveva nei Quaderni: «Il grande politico non può che essere ‘coltissimo’, cioè deve ‘conoscere’ il massimo di elementi della vita attuale; conoscerli non ‘librescamente’, come ‘erudizione’, ma in modo ‘vivente’, come sostanza concreta di ‘intuizione’ politica». Tuttavia – aggiungeva – perché in lui diventino sostanza vivente occorrerà apprenderli anche librescamente.
Ho sempre pensato che le due culture non sono, come si dice, la cultura scientifica e la cultura umanistica. Sono la cultura del popolo e la cultura degli intellettuali. Due cose diverse: non si identificano, non si sommano, non si confondono. Eppure un ponte di dialogo e di scambio tra queste due esperienze culturali, deve esserci e devi trovarlo. C’è una cultura materializzata nel lavoro, interiorizzata nel lavoratore: un orizzonte che, per un intellettuale di parte, è come la bussola per il marinaio, ti indica la rotta dove devi andare a cercare, a capire, a scoprire. È difficile comunicare la tranquilla forza di pensiero che ti conferisce l’essere, il sentirsi, radicato in questa parte di mondo. L’unico luogo sicuro e libero da quella nevrosi narcisistica che è la maledizione del lavoro intellettuale. La figura gramsciana dell’intellettuale organico, al partito e alla classe, può essere oggi demonizzata e derisa solo da chi non sarebbe mai stato capace di esserlo.
Il braccio e la mente
Ebbene, quel ponte tra le due culture lo ha costruito quella figura storica, quel soggetto politico della modernità che si chiama movimento operaio. E lo ha fatto, generando coscienza e organizzazione delle masse e al tempo stesso creando pensiero, teoria, cultura alta. Analisi scientifica delle leggi di movimento dei meccanismi di produzione e riproduzione sociale e insieme progetti di liberazione politica.
Mi sento di esprimere una convinzione profonda: più andremo avanti, più il tempo si frapporrà tra noi e il passato, più ci accorgeremo che tutte le derive negative, anche tragicamente negative, non bastano per cancellare la grandezza del tentativo. Penso che, come soggetti politici di consistenza storica, dovremmo affrettare il momento di poter tornare a parlare, ognuno di sé, con onestà: in realtà, non sappiamo con chi e con che cosa sostituire quelle componenti popolari, di matrice cattolica, socialista, comunista, più quelle élites di ispirazione social-liberale, che, tutte insieme, hanno fatto la storia recente di questo paese: perché esse non erano società civile, erano società reale.
Concludo così: abbiamo individuato alcuni punti di attualità dell’opera di Gramsci.
E alcuni dei presenti qui potrebbero suggerirne altri. Ma quando ripensiamo alla vita, anzi all’esistenza, dell’uomo, proprio in quanto uomo politico, allora dobbiamo far ricorso al criterio nietzscheano dell’inattuale. Qualcosa, o qualcuno, che non si può oggi riproporre e proprio per questo, in sé, vale.
Ho letto, in questi giorni, questo libretto di George Steiner, Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero (Garzanti editore, n.d.r.). Una delle ragioni, fonte di melanconia, è l’inadattabilità oggi del grande pensiero agli ideali di giustizia sociale. Scrive Steiner: «Non c’è democrazia per il genio, solo una terribile ingiustizia e un fardello che può essere mortale». Poi «ci sono quei pochi, come diceva Hölderlin, che sono costretti ad afferrare il fulmine a mani nude». Ecco, è tra quei pochi che dobbiamo «cercare ancora» Gramsci.