Si è accesa anche dentro il nostro partito la discussione sugli esiti dei Tavoli programmatici dell’Unione. Non è questione di poco conto, perché da quei lavori sta emergendo il profilo politico con il quale ci presenteremo agli elettori il prossimo aprile. Si tratta, è evidente, di un compromesso, ma è bene cercare di capire quale sia la natura di quel compromesso e quali prospettive indichi per il futuro dell’alleanza.
Al di là di un bilancio complessivo, che pur andrà stilato, fermiamoci al caso specifico dell’area Università e ricerca. Un’area apparentemente di minor rilievo, eppure nevralgica, sia perché riguarda un terreno che è stato nell’ultimo anno al centro di un conflitto molto aspro con il Ministro Moratti (e che ha visto in alcuni frangenti una ampia mobilitazione delle università contro le politiche del governo), sia per l’effettiva importanza della questione specifica sul piano strategico.
La discussione in corso nell’Unione su questo tema testimonia in modo macroscopico le profonde diversità di prospettiva fra le politiche dell’area “riformista” dell’alleanza e le politiche di una forza come la nostra che si colloca ancora entro l’orizzonte di un progetto di cambiamento radicale della società. I documenti prodotti mostrano però questo esito solo parzialmente. Per evitare la rottura si è scelto, infatti (comprensibilmente d’altronde, viste le intenzioni), di stilare documenti che su alcuni punti si mostrano piuttosto reticenti e un po’ vaghi.
Nondimeno le indicazioni di massima non sono molto tranquillizzanti. In quelle pagine si trova infatti rivendicata tanto la correttezza quanto la lungimiranza delle devastanti politiche universitarie messe in campo nel corso degli anni novanta soprattutto dai governi di centro-sinistra. Con qualche correttivo, a volte anche importante, frutto del lavoro svolto dai compagni che vi hanno patecipato (come la sottolineatura del danno della “specializzazione precoce e parcellizzata” dei corsi di studio, o come l’indicazione della necessità di una più forte attenzione al miglioramento delle condizioni della vita studentesca); ribadendo però allo stesso tempo la necessità di proseguire nella sostanza quelle politiche e di portarle a compimento, come emerge in modo piuttosto evidente riguardo ai due pilastri dei cambiamenti degli ultimi anni, l’”autonomia” finanziaria e organizzativa degli Atenei e la riforma dei cicli di studio con l’introduzione delle lauree triennali seguite da quelle specialistiche. “Riforme” che hanno indebolito le università e la loro offerta formativa, incentivando la competizione fra atenei e impoverendo il percorso universitario, trasformato sempre più in una sorta di fast-food della formazione (o, per meglio dire, della informazione).
Ma se tutto ciò resta prudentemente un po’ mascherato nei documenti del Tavolo dell’Unione, diventa poi di una chiarezza inquietante se leggiamo i documenti parziali con cui le forze politiche si sono presentate al confronto.
Pochi giorni fa è stata resa accessibile su internet una “scheda” dei DS preparata da Gianni Toniolo sul tema, non precisamente di dettaglio, “L’Università che vogliamo creare”.
Questo documento non lascia adito a dubbi. Lo scenario e le prospettive tratteggiate non hanno nulla a che vedere con l’idea di Università che appartiene al nostro partito. E’ bene essere chiari su questo punto. Non si tratta di una posizione, quella dei DS, qui troppo sbilanciata a destra, o che va corretta, magari anche decisamente, in alcune parti. Si tratta proprio di un progetto che ci è totalmente estraneo, che guarda a un altro modello di società, a un altro ruolo della formazione, a un altro significato del sapere.
Qualche esempio varrà a chiarire. In quel documento, dopo aver spiegato che il sistema universitario è centrale per l’innovazione delle imprese e per l’immagine dell’Italia nel mondo, Toniolo ribadisce che l’”autonomia” va portata al suo pieno compimento, con tutto ciò che ne segue: “Autonomia di organizzazione, di innovazione nelle strutture di governo, di assunzione del personale (docente e non docente), di fissazione remunerazioni, di formulazione dei programmi di insegnamento, di scelta dei criteri di ammissione degli studenti, e, in genere, di gestione delle proprie risorse”. C’è qui molto evidentemente un disegno di azzeramento del sistema pubblico nazionale della formazione universitaria, sostituito da un sistema forgiato e plasmato sulle esigenze del mercato. Si prevede fra l’altro l’abolizione del valore legale del titolo di studio e la liberalizzazione delle tasse universitarie (il che naturalmente equivale al loro innalzamento). Per accelerare il tutto sono poi auspicati incentivi economici per quegli atenei che vorranno procedere più speditamente verso il regime di piena autonomia (la disatrosa esperienza dell’applicazione affrettata del ‘3+2’ non ha evidentemente insegnato nulla: o ha insegnato troppo).
La prospettiva di marcia indicata da Toniolo è inequivoca: “Una volta abolito il valore legale del titolo di studio, le università che lo decideranno potranno trasformarsi in Enti Autonomi e godere immediatamente della più completa autonomia finanziaria, gestionale, didattica e scientifica”. Il che, naturalmente, equivale anche all’esplicito rafforzamento e al rilancio del sistema formativo privato. Ma, se possibile, c’è di peggio: “Saranno libere di assumere il personale docente e non docente con contratti di diritto privato sottoposti solo al vincolo della legge, di organizzare la propria didattica, di stabilire le norme per l’ammissione degli studenti e di fissare le tasse di frequenza”. Il disegno è chiaro: non più un’idea dell’alta formazione come bene pubblico garantito e tutelato dallo Stato, ma la progressiva delega a Enti Autonomi che si comportano di fatto come imprese private –quando non lo diventino a tutti gli effetti- nell’occupare nuovi e rilevantissimi settori di mercato.
Non c’è di che scandalizzarsi: questo progetto è la logica conclusione di un modello di società calibrato ormai esclusivamente sulle regole del mercato. Scandalizzarsi serve solo a nascondere la natura del contendere: la profonda e radicale diversità di quello sguardo dal nostro.
Dunque? Nessuna possibilità di procedere con interlocutori attestati su posizioni così radicalmente distanti dalle nostre? Forse no. Ma il primo passo dovrebbe essere prendere atto di queste divergenze, senza nasconderle. L’errore, al contrario, sembrerebbe proprio quello di cedere su qualche punto strategico in ragione di una malintesa concezione della mediazione politica; che deve coinvolgere invece eventualmente il piano tattico lasciando al riparo per quanto è possibile il piano strategico.
L’unica strada che sembra percorribile è quella di delineare una nostra posizione, molto chiara nelle sue linee di fondo (no all’autonomia, no alla logica del 3+2, no alla cancellazione del ruolo del ricercatore, sì a nuove assunzioni, sì all’aumento dei finanziamenti, sì a un sistema di valutazione serio e calibrato sui vari settori disciplinari), sapendo poi di dover mediare su qualche singolo punto.
Se vogliamo aumentare il nostro consenso per poter contare di più in prospettiva, e dunque vedere poi riconosciute alcune delle nostre istanze, dobbiamo presentarci al confronto senza rinunciare a un orizzonte strategico netto e senza indietreggiare sui punti che consideriamo nevralgici, denunciando apertamente allo stesso tempo l’estrema difficoltà, viste le forze in campo, di far valere fino in fondo le nostre ragioni. Dobbiamo insomma saper agire nelle contraddizioni che oggi ci si presentano. Otterremo in prospettiva di più delineando un obiettivo politico chiaro e di alto profilo, e mostrando quanto i rapporti di forza all’interno dell’Unione non consentano di perseguirlo, piuttosto che attenuando le nostre posizioni in nome della necessità di un accordo che non soltanto arriverebbe come esito di un gioco al ribasso, ma sacrificherebbe le nostre idee politiche sull’altare di una governabilità a quel punto senza più alcun costrutto.