L’Unione e l’asimmetria europea

Da anni la sinistra politica e sindacale italiana non riesce a esprimere un’autonoma capacità di analisi e di proposta sul versante della politica economica e sociale. Fino a qualche tempo fa ci si affannava anche dalle nostre parti a inseguire il verbo dei teorici del bilancio in pareggio e delle privatizzazioni. E oggi che i nodi vengono al pettine, ci si vorrebbe rifugiare tra i pannicelli caldi di chi pretende di risolvere i mali nazionali liberalizzando le licenze dei taxi, o di chi vorrebbe rifilarci i comodi ossimori del «più Stato e più mercato». Appare francamente difficile immaginare testimonianze più nette dell’abisso culturale e politico nel quale gli eredi della tradizione comunista e del movimento operaio sono piombati.
Il tallone d’Achille
Dall’abisso dovremmo tuttavia risollevarci, e in fretta. I tempi della politica infatti corrono e noi per adesso fatichiamo anche solo ad arrancare. Uno spunto prezioso per tentare di recuperare terreno è rintracciabile nel contributo di Augusto Graziani al libro Rive Gauche, recentemente pubblicato da manifestolibri. Al termine del suo intervento Graziani punta l’indice sul problema chiave dell’Unione monetaria europea: la persistenza di differenziali d’inflazione tra la Germania e gli altri paesi «centro» da un lato, e l’Italia e gli altri paesi «periferia» dall’altro. Conseguenza di questi differenziali è il formarsi di squilibri persistenti negli scambi intra-europei, con i paesi centrali in surplus sistematico e le periferie condannate invece a misurarsi con uno strutturale disavanzo commerciale. Proprio questi squilibri, se trascurati, potrebbero alla lunga rivelarsi il tallone d’Achille dell’unificazione monetaria europea, la possibile causa scatenante del suo tracollo. Si tratta per adesso di una eventualità remota, che tuttavia potrebbe attualizzarsi se gli squilibri intra-europei venissero lungamente esasperati da shock esterni – dovuti ad esempio al petrolio o alla concorrenza degli emergenti – che a loro volta tipicamente agiscono in modo sbilanciato sui paesi membri.
Lo spunto di Graziani ci induce dunque a porre il seguente interrogativo: in che modo i padri fondatori dell’euro hanno ritenuto di risolvere questa minacciosa asimmetria interna agli assetti dell’Unione? Semplice: da un lato esonerando i paesi forti dall’effettuare trasferimenti e politiche espansive per contribuire al riequilibrio, e dall’altro imponendo ai paesi deboli di rimediare ai loro deficit attraverso politiche restrittive, svendite di capitale nazionale ai paesi centrali, e soprattutto tramite la riduzione del lavoro a variabile dipendente, a mero residuo del sistema, con uno schiacciamento sistematico delle tutele sindacali e del salario per unità prodotta.
Come non riconoscere in questa lettura dei fatti la determinante principale del dibattito politico di questi giorni? Gli imprenditori italiani esigono dalla nuova maggioranza di governo una politica economica che permetta loro di abbattere i costi e di liberarsi, almeno per qualche anno, dalla morsa stringente del «vincolo esterno». Il rischio che stiamo correndo è che gli esponenti del nascente, pur auspicato governo Prodi decidano di venire incontro alle richieste delle imprese con la più prevedibile e disastrosa delle ricette: ritocco solo cosmetico della legge 30, depotenziamento del contratto nazionale, infima difesa dei salari mediante parziale agganciamento all’inflazione attesa (magari all’inflazione media europea, inferiore a quella italiana), riduzione del cuneo fiscale pagata con l’ennesima stretta alla spesa sociale corrente e con ulteriori privatizzazioni, specie nel campo dei servizi di pubblica utilità.
Il vero ostacolo
Se così davvero fosse sarebbe il colpo di grazia, sarebbe la nostra messa da requiem. Alla sinistra, parlamentare e di movimento, spetta dunque il compito urgente di individuare una linea di indirizzo alternativa, che permetta di combinare la priorità nazionale del riequilibrio dei conti esteri – comune del resto a tutti i paesi periferici dell’Unione – con l’imprescindibile tutela degli interessi della classe lavoratrice. Si tratta di una quadratura difficile, che tuttavia risulta ben radicata nella storia del movimento dei lavoratori e appare tuttora alla nostra portata.
La quadratura verte sul debito pubblico, secondo tuttavia una modalità più complessa di quella finora emersa dal dibattito di politica economica. Sul piano dei rapporti con l’Europa, bisognerebbe infatti sancire l’esistenza di un legame politico tra conti esteri e conti pubblici. Prodi ha in tal senso promesso alle imprese nazionali la riduzione del cuneo fiscale di cinque punti percentuali. Si tratta di una tipica misura emergenziale e pedestre, un sostituto imperfetto della svalutazione che se non viene adeguatamente affiancato da una politica industriale ed energetica pubblica e selettiva ci farà presto ripiombare nella morsa del vincolo esterno. Ad ogni modo, sia l’abbattimento del cuneo che la politica industriale costano. Nostro obiettivo dovrebbe esser quello di fare ricadere questo costo esclusivamente sul debito pubblico.
Chiunque abbia una minima conoscenza del dibattito sull’unificazione monetaria sa bene che, di fronte a una simile strategia, l’eventualità di innalzamento dei ratings sul debito pubblico non produrrebbe effetti di rilievo, se non quello di una crescita marginale del valore di stato stazionario del rapporto tra debito e Pil. Dovrebbe esser noto, infatti, che l’intreccio di rapporti di debito e credito che è venuto ormai a costituirsi nell’ambito del mercato integrato, rende impossibile distinguere il rischio-default dell’Italia da quello degli altri paesi membri. Contrariamente a quanto sostenuto dai cantori del pareggio di bilancio, insomma, il fatto che sempre più titoli nazionali siano nelle mani di operatori europei – e viceversa – non costituisce un vincolo ma apre al contrario spazi di manovra politica inediti. Il vero ostacolo a questa strategia verte pertanto esclusivamente sui parametri di Maastricht, messi lì apposta non a caso proprio per impedire che le periferie dell’Unione tentassero di affrontare lo squilibrio nei conti esteri attraverso l’emissione di titoli pubblici sul mercato europeo. Da quando tuttavia la stessa Germania ha violato i parametri la situazione appare politicamente fluida e promettente. Un’azione sul debito pubblico rappresenta in tal senso l’unica strada percorribile, allo stato dei fatti, per segnalare la nostra indisponibilità politica a adeguarci a un meccanismo di riequilibrio intra-europeo tutto basato sul depauperamento delle periferie e sul massimo sfruttamento dei lavoratori, e per tentare di riaprire la partita sulla riforma degli assetti generali dell’Unione monetaria. Delle due l’una, dunque: se Prodi vuole ridurre il cuneo fiscale di cinque punti deve abbandonare l’idea di aumentare l’avanzo primario dello Stato fino a cinque punti. La pretesa di perseguire entrambi gli obiettivi sarebbe disastrosa per i lavoratori e andrebbe pertanto respinta dagli esponenti della sinistra.