1.La più pericolosa forma “sovrana” della crisi
La crisi, iniziata con lo scoppio della bolla immobiliare Usa, ormai due anni or sono, è tutt’altro che terminata. Semmai ci fossero stati ancora dei dubbi, gli ultimi avvenimenti in Europa hanno rivelato quanto sia profonda questa crisi. Tanto profonda da accelerare la modificazione non solo degli assetti produttivi, ma anche della forma degli Stati. Questa crisi nasce dalla base reale dell’economia, che sconta una sovraccumulazione di capitale ormai arrivata a livelli insostenibili. Proprio per superarla, si sono prodotte bolle finanziare a ripetizione, che, una volta scoppiate, hanno riproposto la crisi su una base sempre più larga. Lo scoppio della bolla immobiliare, su cui si era retta la ripresa economica Usa dopo il 2001, ha quasi prodotto il collasso del sistema bancario, che è stato tamponato con l’immissione di una massa di liquidità senza precedenti. Con due risultati nefasti, però. Da un lato, quello di gonfiare in modo abnorme i debiti statali. Dall’altro, quello di creare una nuova base speculativa mediante lo spostamento della liquidità immessa nel sistema finanziario verso il mercato dei titoli del debito pubblico. Il paradossale risultato è che lo Stato è diventato, nello stesso tempo, prestatore di ultima istanza e oggetto della speculazione finanziaria, spesso da parte di quelle stesse istituzioni finanziarie che egli aveva salvato. La forma “sovrana” della crisi è quella più pericolosa, perché se si verifica la bancarotta degli stati, è il prestatore di ultima istanza che viene meno. Inoltre, se i titoli del debito pubblico si riducono a carta straccia sono le banche che li hanno in pancia a ritrovarsi a mal partito. In pratica, si riproporrebbe, senza che sia disponibile un paracadute di riserva, quello che è già accaduto alle banche nel 2008, piene di derivati basati su mutui americani con valore prossimo allo zero. Praticamente si rischierebbe un collasso del sistema bancario mondiale.
2.Le caratteristiche di una “strana” moneta e l’attacco all’euro.
A questo punto, dobbiamo chiederci: perché la crisi del debito sovrano ha messo in difficoltà maggiormente proprio l’Eurozona e l’euro? L’euro sconta una anomalia. Da una parte, è un valuta che unisce una delle aree più avanzate e economicamente potenti del Mondo. Dall’altra, contrariamente a qualsiasi altra valuta, dietro di essa non c’è uno Stato unitario. Di conseguenza, non c’è un unico bilancio pubblico, né un’unica politica fiscale. Bruxelles, di conseguenza, non può manovrare con la leva fiscale come fanno altri Stati e, ad esempio, non può emettere titoli del debito pubblico europeo. La Banca centrale europea è autonoma dai governi e non può stampare valuta a seconda delle necessità di finanziamento del potere politico. A questo si aggiunge il fatto che nell’Eurozona ci sono profondi squilibri economici. Differenze, anche maggiori, esistono anche altrove, negli Usa e in Cina ad esempio, ma per l’appunto sono riscontrabili nello stesso Stato, che in qualche modo le gestisce. Nell’Eurozona abbiamo grosso modo tre gruppi di Stati. Il primo è composto da Germania, Olanda e Belgio, che hanno strutture industriali con alta produttività e grazie all’euro hanno potuto esportare di più, ricavandone surplus commerciali molto grandi. Il secondo è composto da Paesi più deboli, come la Grecia, il Portogallo, l’Irlanda, e la Spagna, che con l’euro non hanno più potuto ricorrere alle consuete svalutazioni competitive e hanno accumulato debiti commerciali enormi specie con il primo gruppo di Stati. In mezzo ci sono alcuni Paesi con situazioni molto differenziate, come l’Italia, la Francia, ecc. I debiti commerciali enormi dei Paesi più deboli hanno incentivato la crescita dei rispettivi debiti pubblici, a sostegno dell’economia privata in difficoltà competitiva. Inoltre, la massa di liquidità immessa a costi bassissimi negli anni scorsi, soprattutto a partite dagli Usa, ha facilitato in questi Paesi anche l’indebitamento delle famiglie. Ma il quadro non sarebbe completo né comprensibile se non considerassimo che lo squilibrio europeo si inserisce in uno squilibrio più generale. Il rapporto Germania – resto d’Europa si ripropone, a livello grande, nel rapporto tra gli Usa, il più grande debitore mondiale, e la Cina, il più grande creditore mondiale. A seguito dello scoppio della crisi dei subprime e a causa del rigonfiamento del debito pubblico gli Usa hanno trovato difficoltà a continuare a finanziarsi con la Cina, timorosa della svalutazione del dollaro e quindi dei titoli di Stato Usa. In particolare il dollaro si è svalutato verso l’euro, con il rischio che il risparmio mondiale venisse dirottato verso l’Eurozona. Dunque, l’attacco all’euro sfrutta le contraddizioni interne della valuta europea, si inquadra in una competizione con il dollaro per l’attrazione del surplus mondiale e si basa sul funzionamento dei mercati finanziari, in cui gli hedge fund muovono miliardi di dollari colpendo rapidamente Paesi e valute che prestino il fianco alle loro operazioni. L’attacco alla Grecia, al Portogallo e alla Spagna, poi, non è pericoloso solo perché una bancarotta di questi Paesi metterebbe in forse l’euro, ma anche perché provocherebbe forti predite tra le banche europee e ripercussioni pericolosissime su tutta l’economia. Infatti, le banche di Eurolandia sono fortemente esposte con il debito pubblico dei Paesi più deboli. Le banche tedesche, ad esempio, detengono 45,2 miliardi di dollari del debito greco, 238 di quello spagnolo e 47,4 di quello Portoghese.
3.Le contraddittorie tendenze verso uno Stato Ue e la necessità del coordinamento dei comunisti europei
Questa crisi, fra le altre cose, sta divaricando, fino quasi al limite della deflagrazione, le contraddizioni dell’economia mondiale. Abbiamo accennato a quella tra Usa e Cina. In Europa, la crisi greca ha messo allo scoperto l’anomalia dell’euro, una valuta senza Stato. E una moneta senza potere dello Stato non può andare lontano. Soprattutto in una fase di crisi mondiale in cui la competizione fra le frazioni di capitale si va facendo sempre più acuta. Per queste ragioni l’eurozona subisce pressioni fortissime a muoversi verso forme di unificazione sempre maggiore. Tuttavia questo movimento avviene in modo molto contraddittorio, perché numerosi sono i contrasti tra le varie frazioni del capitale europeo. Si sono delineate due tendenze. Una prevede addirittura una centralizzazione delle politiche fiscali ed un unico bilancio pubblico dell’Eurozona. Di fatto, questa tendenza prefigurerebbe uno Stato federale europeo. Un’altra tendenza, guidata dalla Germania, si oppone a questa posizione, e, più che un unico bilancio federale, prospetta un maggiore controllo sui bilanci nazionali. La Germania, infatti, teme di perdere la propria egemonia e di dover riequilibrare il proprio surplus commerciale. Quest’ultima posizione sembra per ora essere quella prevalente. Ad ogni modo, quei vincoli di bilancio ai singoli Stati che erano emersi con Maastricht saranno rafforzati, magari con una nuova Maastricht. Già ora sta verificandosi una imposizione centrale ai singoli stati di politiche fiscali restrittive e di tagli alla spesa pubblica, con una forte limitazione alla sovranità dei parlamenti nazionali. Noi, oggi, non possiamo dire con certezza che esito avranno le contraddizioni che sono scoppiate in questi mesi e quali tendenze si affermeranno. Ma sicuramente le cose difficilmente potranno rimanere così come sono. A questo proposito, la domanda che dobbiamo porci è: qual è il carattere della nuova Unione Europea che si sta delineando? Evidentemente una Europa basata sull’accordo dei capitali europei e non dei popoli europei. Circa cento anni fa Lenin sostenne che eventuali Stati Uniti d’Europa, stante il sistema capitalistico, non potevano che essere o impossibili o reazionari, come accordo contro i lavoratori e contro altri imperialismi. Oggi, sembra che quelle parole trovino riscontro nella realtà. Infatti, con una maggiore o una minore egemonia tedesca, questa è una Europa che si attrezza per la competizione valutaria, ovvero per la forma della competizione imperialistica di questo inizio di XXI secolo. E l’adeguamento a tale competizione, che passa per tagli alla spesa sociale e politiche fiscali restrittive, richiede lo schiacciamento dei lavoratori e delle loro condizioni di vita. La Ue ha imposto alla Grecia politiche sociali di lacrime e sangue, che sta estendendo al Portogallo e alla Spagna. Ma politiche simili sono in procinto di partenza in Francia e in Italia. Anche in Germania i salari sono fermi da molto tempo, a dispetto di una produttività che cresce sempre di più. I tagli alla spesa pubblica in questo contesto economico saranno controproducenti ed avranno, da una parte, il risultato di rendere più difficile contrastare la crisi e, dall’altro, quello di consentire la remunerazione di banche e possessori dei titoli di Stato, che la Bce garantirà in ultima istanza potendoli acquistare per la prima volta. La strada scelta dalla Ue, quella neomercantilista, basata sul privilegiare le esportazioni rispetto alla crescita del mercato interno, non farà altro che ampliare le contraddizioni a livello interno e tra aree economiche. Marx riteneva che l’accumulazione capitalistica avrebbe determinato due condizioni: in primo luogo, che il mondo sarebbe stato sempre più interdipendente e, in secondo luogo, che ogni soluzione ai problemi non potesse che essere globale. Questi dovevano essere i presupposti dell’azione dei comunisti. Il mondo, oggi, è divenuto interdipendente e le soluzioni non possono che essere globali. Lo stesso capitale lo dimostra con la sua tendenza a costruire Stati sempre più grandi. Ma le soluzioni del capitale non sono quelle giuste, come abbiamo visto. Il problema, infatti, come avvertiva sempre Marx, è che il governo capitalistico dell’accumulazione accresce, allo stesso tempo, le differenze e i divari e non è in grado di dare soluzioni globali. Oggi, quindi, è venuto il momento che al coordinamento dei capitali europei si contrapponga il coordinamento dei lavoratori e dei partiti comunisti europei. È la realtà stessa, con la sua durezza, che ci impone di affiancare alla dimensione nazionale anche quella europea, alla quale, prima ancora che dall’ideologia, siamo sollecitati dalle condizioni materiali dello scontro di classe. Le lotte a livello nazionale sono necessarie e sono il punto imprescindibile da cui partire, come hanno dimostrato i comunisti greci. Ma stare solo su quel terreno, quando l’avversario sta facendo un salto di qualità su scala continentale nella sua azione, vuol dire mettersi, già sul medio periodo, in una condizione di inferiorità. Per queste ragioni sarebbe necessario lanciare, già da ora, la proposta di un incontro dei partiti comunisti europei per svolgere una analisi della situazione e soprattutto per individuare i punti di una campagna politica che prepari iniziative contro l’Europa del capitale e per l’Europa dei lavoratori.
*Membro del comitato centrale PdCI, responsabile formazione del PdCI di Roma e dell’Associazione MarxXXI