Alla pagina 162 del programma dell’Unione c’è scritto: «Crediamo che il lavoro flessibile non possa costare meno di quello stabile». Il programma è stato «approvato» con il voto da milioni di cittadini italiani. Eppure, dalle ultime dichiarazioni del ministro del lavoro Cesare Damiano (la più recente due sera fa alla trasmissione Primo Piano di Rai Tre), sembra invece che questo punto non verrà realizzato: il ministro, infatti, spiega che l’esecutivo intende «innalzare leggermente i contributi del lavoro a progetto, e contemporaneamente, con l’operazione del cuneo fiscale, abbassare i costi del lavoro a tempo indeterminato, in modo da aggredire il lavoro precario a tenaglia». Il principio teoricamente è condivisibile, ma resta il problema che se la soluzione finale sarà questa, senza cioè arrivare almeno a una completa parificazione dei contributi e a una identica parificazione dei compensi, i lavoratori a progetto resteranno alla completa mercé delle aziende, che potranno giocare a fisarmonica con i loro salari avendo sulla voce «compensi» mano praticamente libera. Un rischio che si può già intravedere nella prima circolare emanata dal ministro del lavoro, quella sui call center del 14 giugno, particolarmente importante dato che detta regole su quello che è diventato il settore-simbolo della precarietà. E che certamente verrà utilizzata come un precedente.
E’ vero che il ministro ribadisce sempre, come d’altra parte recita il programma, che la «forma normale di occupazione è il lavoro a tempo indeterminato», e che fine del governo sarebbe restaurarne l’effettiva «normalità», ma questo punto non si può realizzare se non si rimane fermi sulla parificazione – al minimo – dei costi. Ancora: nel programma si parla di «sottoporre i lavori a progetto alle regole dei diritti definite dalla contrattazione». Per inciso: tutte soluzioni che, come manifesto, vediamo comunque «al ribasso», sposando piuttosto le tesi di chi vuole un lavoro flessibile più costoso dello stabile e l’eliminazione del contratto a progetto.
La circolare, però, prefigura un futuro dei cocoprò assolutamente diverso: a compenso libero e fuori dalla contrattazione nazionale. Chi fa attività in bound, ovvero riceve le telefonate dei clienti, è necessariamente un terminale «passivo», in attesa che la telefonata ci sia effettivamente o no, e non può influire sulla sua durata: per il ministro, insomma, è un lavoratore subordinato a tutti gli effetti, e come tale va inquadrato. Ottima definizione. Il problema sorge però quando la circolare passa a definire l’out bound: chiamare i clienti per proporre un servizio o un prodotto. Se non vincolati a un orario cogente, se non sono immediatamente sottoposti a un capo e possono gestirsi il lavoro da soli, per il ministero sono una sorta di «autonomi», quelli che possono rientrare una volta per tutte tra i «collaboratori coordinati e continuativi a progetto», e dunque non vanno parificati ai subordinati. Il fatto è che per la stessa circolare, questi lavoratori hanno comunque una fascia oraria di riferimento, lavorano in azienda e con i suoi mezzi, ma, soprattutto, «si assumono l’obbligo di eseguire entro un termine prestabilito e con possibilità di autodeterminare i ritmi di lavoro un progetto idoneo a configurare un risultato, determinato nei suoi contenuti qualificanti».
La maggior parte dei lavoratori dei call center in realtà opera proprio in out bound, e, come spiega Emilio Viafora, segretario generale del Nidil Cgil, «l’elenco delle persone da chiamare è fornito dall’azienda, così come le strategie di azione e, di fatto, i risultati da ottenere: chi fissa i criteri per stabilire se una telefonata è utile o meno? Se chiudo solo 10 contratti in dieci ore di lavoro, perché magari la lista fornitami dall’azienda non funziona, vengo retribuito solo per quelle telefonate?». La Cgil, per quanto abbia apprezzato la parte sul riconoscimento dei subordinati, esprime insomma molte perplessità sui «parasubordinati», poiché non si è parlato neppure di compensi e di riferimento ai contratti. «Se andiamo a riscrivere tutte le forme del lavoro, allora questa si può interpretare come una circolare che fa un primo passo, ma se non ci fissiamo i prossimi obiettivi, le imprese possono comunque ripiegare sulle partite Iva o eludere attraverso le altre tipologie della 30 – conclude Viafora – Insomma, l’obiettivo dovrebbe essere quello di superare queste forme ambigue di lavoro». Ma per ora, Damiano non sembra affatto averne l’intenzione.