L’altroieri l’Unità pubblicava in prima pagina un articolo di Roberto Roscani, che aveva in apertura il testo di un breve messaggio di Giorgio Napolitano a Giuseppe Tamburrano, presidente della Fondazione Nenni. Napolitano dava atto a Pietro Nenni di aver avuto ragione, quando condannò l’intervento sovietico del 1956 in Ungheria. In effetti non si trattava di cosa nuova poiché Napolitano questa critica e autocritica l’aveva già resa pubblica da tempo e anche nel suo interessante volume autobiografico Dal Pci al socialismo europeo. Tutto normale, direi.
Ieri però la Repubblica si è scatenata con un editoriale di Miriam Mafai e due intere pagine con un articolo di Simonetta Fiori e interviste a Pietro Ingrao e Antonio Giolitti di condanna dell’invasione sovietica. A questo punto è inevitabile chiedersi perché tanta enfasi ora, su un fatto condannato da molto tempo. Certo che a leggere l’altroieri Giddens che dà per morto il socialismo e ieri quest’altro carico di accuse al vecchio Pci, viene il dubbio che non si tratti solo della damnatio memoriae di un partito che pure qualcosa di buono ha fatto, ma addirittura di affermare che tutti gli ideali di cambiamento dello stato di cose esistente vanno liquidati per sempre. Forse penso male – e contrariamente al detto di Andreotti – sbaglio anche. Ma la penso così.
Un discorso a parte sui «fatti d’Ungheria» del 1956 e, aggiungo, che le autocritiche (oggi assai più facili) dovrebbero essere contestualizzate con i fatti di allora. Certo, quella del Pci, fu una scelta grave, ma in che misura e come questa scelta fu condizionata dallo stato delle cose?
Nel 1956 ero nel Pci e i fatti d’Ungheria furono per me e per molti compagni, una mazzata, una vergogna tremenda. L’esecuzione, qualche mese dopo, di Nagy fu ignobile. Nel Pci l’agitazione non fu di superficie. Ci fu la presa di posizione di Giuseppe Di Vittorio, ci fu l’appello dei 101 intellettuali, anche nelle sezioni (ricordo la sezione Italia) la discussione fu aspra e appassionata. Non accettammo la linea del partito come disciplinati soldatini. Anche la dichiarazione di consenso che allora Napolitano fece (e che molto correttamente riproduce) certamente non fu serena e tranquilla. Tuttavia la maggioranza di noi (pur senza entusiasmi) rimase nel Pci. La domanda è perché ci siamo rimasti, perché nonostante, amarezza e vergogna, siamo rimasti «da questa parte della barricata»? Perché la maggioranza di noi non si è messa al seguito di Pietro Nenni?
Non intendo affatto giustificare, le conseguenze dell’invasione sovietica furono gravissime e sanguinose, ma cercare di ricordare – sul filo di una memoria un po’ sconnessa – come stavano allora le cose.
In quei giorni Inghilterra e Francia con l’aiuto di Israele tentarono di occupare Suez, poi furono dissuasi dagli Usa, che per l’Ungheria non mossero un dito. C’era stato il XX Congresso del Pcus, che apriva alla destalinizzazione. L’Urss sembrava in rilancio di crescita con l’uomo nello spazio (nel 1957) e le altre iniziative con i paesi ex coloniali (conferenza di Bandung); si apriva l’epoca della «coesistenza pacifica». Insomma c’era ancora «la forza propulsiva» dell’Urss.
In Italia c’era stata la sconfitta alla Fiat e una violenta offensiva antioperaia, con minacce di mettere il Pci fuorilegge. E poi c’era il Pci.
Un Pci che per un verso subiva ancora un’influenza secchiana, tale che una rottura con l’Urss avrebbe provocato una sua grave spaccatura. E insieme un Pci che con l’intervista di Togliatti a Nuovi Argomenti e con l’VIII congresso del 1956, a ridosso dell’Ungheria, rimetteva in campo la svolta di Salerno e la via italiana al socialismo. C’era da sperare e da lavorare. C’erano ragioni per restare.
Tutto questo non vuole negare l’errore dei sovietici, ci fu e grave. Vale ricordare che quando movimenti protesta ci furono in Polonia i sovietici non mandarono i carri armati, ma rimisero Gomulka al potere. L’errore è indiscutibile e pesa ancora, ma aprire una discussione meno strumentale sui fatti di 50 anni fa forse potrebbe essere ancora utile. Del tutto diversi – nella sostanza e nel contesto – i fatti di Cecoslovacchia del 1968.
È un altro discorso, anche dentro il Pci, come a qualcuno l’esistenza di questo giornale dovrebbe ricordare.