L’umanità coerente di Federico Caffè

Per chi non abbia avuto la fortuna di conoscere – personalmente o attraverso i suoi scritti – Federico Caffè, appare senz’altro utile anche soltanto un breve cenno al suo profilo umano e professionale in occasione del ventesimo anniversario della sua «scomparsa». Di recente, una mia studentessa di un paio di anni fa, che non lo aveva conosciuto, ma aveva seguito una trasmissione televisiva in suo ricordo, mi domandava se non sarebbe stato utile che ne avessimo parlato diffusamente a lezione. Devo confessare che la cosa non mi riesce facile per i ritmi serrati imposti dall’attuale ordinamento accademico ed ho anche qualche resistenza a farlo, per evitare spettacolarismi, sovraesposizioni e altro, preferendo seguire la sostanza del suo insegnamento, anche senza ricordarlo più di tanto esplicitamente. E, invece, evidentemente sbagliavo, se non altro perché ai giovani – spesso trascurati, ora come prima del 1968, da quelli che dovrebbero essere i loro insegnanti – fa piacere sapere che vi è stato un docente sempre disponibile e che ha preferito scomparire quando ha perso il contatto con loro, che erano la sua famiglia «acquisita».
Potrebbe invece apparire superfluo che si parli di Caffè a chi lo ha già conosciuto e che – per il fascino della persona e delle opere – è portato certamente a ricordarlo tutte le volte che, e capita spesso, ricorre l’occasione di confrontare l’Uomo, l’Insegnante e lo Scienziato sociale che egli era con ciò che continua a passare il “mercato” di questi tempi. Ma la fretta con la quale siamo spesso costretti a fare i conti e a valutare le situazioni che ci si presentano non rende inutile qualche considerazione più meditata e di lungo respiro.
Di Caffè non vanno ricordate soltanto la dedizione all’insegnamento, alla ricerca e ai giovani, ai poveri e agli emarginati, ma anche – e soprattutto – la sua «umanità», dalla quale discendevano gli altri aspetti del suo carattere e la sua condotta, anzitutto, nel suo luogo di lavoro, l’università, e, poi, nella società. Era questa umanità coerente – che è poi l’unica vera umanità – che lo portava ad interpretare la professione di pubblico impiegato nel modo più pieno e attivo, con orari che egli – in modo eufemistico ma allusivo dei suoi interessi sociali – definiva “da metalmeccanico”. Era ancora questa umanità coerente che lo portava a studiare le opere di chi – pur non sottacendo le distorsioni e le insufficienze nell’intervento pubblico, particolarmente acute nel nostro paese – si occupava dei numerosi aspetti di fallimento del mercato, in termini di efficienza ed equità sociale, e poi a dare i propri preziosi suggerimenti in merito, mediati dalle sue vaste e profonde conoscenze istituzionali, e ad agire nel concreto in termini di impegno lavorativo, beneficenza e interventi «compassionevoli» (nel significato più proprio) nelle sedi scientifiche e pubblicistiche.
Ma nel ricordare Caffè non bisogna sottrarsi ad una prima domanda essenziale: ci può servire il suo pensiero oggi, a distanza di questi venti anni che sembrano essere stati più lunghi dei venti anni precedenti, per densità e qualità degli avvenimenti, per i rivolgimenti che ne sono conseguiti?
La risposta è indubbiamente positiva, perché il funzionamento del mercato «trionfante» di questi anni ha confermato le carenze note, forse accentuandole, in Italia e all’estero.
Anzitutto, cominciano ad essere palesi i danni provocati dall’ubriacatura delle privatizzazioni: in Italia, in cui le vicende di questi mesi, che hanno interessato Autostrade e Telecom, fanno comprendere come la cessione delle imprese pubbliche, non accompagnata da una incisiva regolamentazione, sia stata soprattutto un affare per i nostri industriali alla ricerca di rendite, e un danno per i lavoratori e i consumatori; all’estero, dove – come ha mostrato un allievo di Caffè con dovizia di argomentazioni – le privatizzazioni antesignane della signora Thatcher hanno fallito nel conclamato obiettivo di migliorare l’efficienza. Caffè non è mai stato, anche negli anni del trionfo completo e acritico di certe forme di intervento pubblico, un assertore della bontà dell’intervento pubblico a tutti i costi. Egli era consapevole dei limiti sia dell’intervento pubblico – anche nella forma della proprietà diretta delle imprese – sia del mercato e chiedeva che si riflettesse sulle singole situazioni concrete per suggerire la ricetta più appropriata.
Ma è soprattutto il ruolo essenziale dello stato sociale in termini di efficienza e di equità che questi due decenni hanno ribadito, in termini sia teorici sia empirici, mostrando come – al di là di talune situazioni di eccellenza in qualche paese ottenute in presenza di istituzioni private – i sistemi sanitari, previdenziali, assistenziali ed educativi pubblici possano portare, nei paesi nei quali essi sono gestiti in modo assennato e per le finalità istituzionali, a risultati superiori nelle medie e non inferiori nelle punte.
Ma se vogliamo ricordare Caffè oggi senza compiere un’operazione catartica nè dare il benché minimo spazio allo spettacolarismo che egli aborriva, dobbiamo anche chiederci non soltanto in che cosa il tempo gli abbia dato ragione, ma anche quali sono le difficoltà tuttora presenti, o accentuatesi nel frattempo, rispetto a un efficace intervento pubblico nell’economia e nella vita sociale del nostro paese.
Alcuni nodi nella struttura sia dell’economia privata sia dell’apparato pubblico permangono o si sono accentuati negli ultimi due decenni. Le carenze strutturali dell’apparato produttivo permangono tutte e si sono forse accentuate; i segnali di miglioramento nel contenuto delle nostre esportazioni che si ravvisano nei dati statistici sono ancora troppo timidi e, per contro, si sono perse quelle posizioni di preminenza in alcuni settori tecnologicamente avanzati (vedi elettronica) che erano ancora presenti verso la metà degli anni ’80. La grande impresa manifatturiera è stata drasticamente ridimensionata. I servizi privati sono in molti casi meno efficienti ora di allora. Il tasso di disoccupazione è all’incirca quello stesso della metà degli anni ’80, con l’aggravante della maggiore rilevanza della occupazione precaria. Abbiamo avuto un drastico calo dell’inflazione, ma anche la protezione nei suoi confronti si è ridotta; che questo abbia prodotto maggiore efficienza o equità è, nel migliore dei casi, tutto da dimostrare. La povertà – pur in forme nuove – torna ad essere un problema rilevante e la distribuzione del reddito, in tutti i suoi aspetti, è decisamente peggiorata. La funzionalità della Pubblica amministrazione non è maggiore ora di quanto non lo fosse negli anni ’70 o ’80 e in alcuni comparti è decisamente peggiorata. Lo stato sociale ha mostrato segni di crisi che ne richiedono una riforma. Soprattutto, va enfatizzata e non sottaciuta, come si è portati a fare, la crisi della scuola e dell’università, non più strumento di formazione del cittadino e del capitale umano, non più veicolo di promozione sociale. Anche la giustizia, in tutti i suoi aspetti, versa in una situazione comatosa. La democrazia, seppur minacciata in misura apparentemente molto minore oggi di quanto non lo fosse allora dalla violenza di gruppi armati, si è dimostrata incapace di risolvere casi sconcertanti di attentati e tragedie ed è appannata da due fatti nuovi maturati negli ultimi decenni: la scomparsa di almeno un grande partito della sinistra, che, nonostante i molti suoi limiti, ha rappresentato un elemento di garanzia democratica di tutto rispetto; il consolidarsi del berlusconismo, che, spettacolarizzando trasformismi, gattopardismi e particolarismi, ne ha facilitato l’assorbimento da parte degli italiani, costituendo un ulteriore strumento di disgregazione sociale.
La constatazione di questa situazione porta a chiedersi come si sia potuto disperdere quel patrimonio di energie e di voglia di miglioramento che si era espresso nelle aule e nelle piazze a partire dal 1968 e, comunque, come e perché esso sia stato inefficace, o almeno insufficiente rispetto alle pur rilevanti pressioni esterne e alla deriva «borghese». O porta a chiedersi se gli antichi mali italici – accentuazione di mali senza confini – non venissero semplicemente dissimulati da richieste tanto vaghe quanto vociate ed espresse con toni alti. O porta a chiedersi se le battaglie serie ed efficaci nei confronti del sistema non passino per una opera lenta, ma tenace, di educazione e diffusione delle idee; se, pur consapevoli della potenza degli interessi costituiti, non sia possibile individuare alcuni nodi fondamentali per lo sviluppo della democrazia nel nostro paese, la scuola e l’università in primis, e farne oggetto di una riforma ampia e penetrante.
E, nel porsi queste domande, il pensiero non può che essere confortato dalla rilettura de «La solitudine del riformista», che bene ha fatto il manifesto a riproporre, insieme agli altri scritti e alle interviste di Federico Caffè al giornale, a beneficio non soltanto di coloro che non lo hanno conosciuto, ma anche dei suoi allievi ed estimatori, per testimoniare la forza delle sue argomentazioni nel lungo periodo.