L’ultimo grido di Annan: «America, così abbandoni i tuoi ideali»

«I diritti umani e il rispetto della legge sono vitali per la sicurezza e la prosperità del mondo intero. Ma questa linea può essere mantenuta solo se l’America rimane fedele ai suoi principi, anche nella Guerra al terrorismo. Se un paese come gli Stati Uniti sembra abbandonare i suoi stessi ideali e obiettivi, è normale che i suoi amici si sentano turbati e confusi»: le classiche parole come pietre quelle pronunciate da Kofi Annan ieri, al momento di lasciare il posto di segretario generale delle Nazioni Unite. Durante il suo mandato Annan ha dovuto ingoiarne parecchie dalla Casa Bianca di George Bush, dal rifiuto di aderire al Tribunale internazionale di giustizia alla minaccia di «irrilevanza» se non si allineava con gli ordini di Washington, fino alla sciagurata invasione unilaterale dell’Iraq, e deve essergli capitato spesso di provare una voglia matta di dirgli il fatto suo e di essere costretto a contenersi per non peggiorare la situazione. Ora, alla vigilia di tornare ad essere un cittadino qualunque, «libero» di esprimere il suo pensiero (il suo mandato scade alla fine dell’anno), eccolo cogliere l’occasione offertagli dalla Truman Library di Independence, nel Missouri, cioè il museo che raccoglie tutto il materiale della presidenza di Harry Truman, in pratica il predecessore di Bush più lontano da lui che si possa immaginare.
Seppure abilitato a parlare in libertà, tuttavia, Annan resta pur sempre una persona responsabile e di stile, per cui quelli rivolti a Bush non sono insulti ma considerazioni pacate e «alte» sui guai che questa Casa bianca ha combinato finora e sul timore di ciò che possa ancora combinare nei due anni che gli restano. Per cominciare, Annan non ha mai esplicitamnte nominato Bush, ma tutti capivano a cosa si riferisse quando per esempio citava proprio una frase di Truman: «La responsabilità della nazioni potenti è di servire, non dominare i popoli del mondo», o quando citava l’esempio lontano della Guerra di Corea, in cui sempre Truman agì certo con decisione ma comunque «innanzi tutto portò il problema all’Onu». Ora non è così – e certamente non lo è stato nella faccenda irachena, in cui di fatto Washington non riuscì a ottenere il «sì» del Consiglio di sicurezza neanche con le lusinghe e le minacce – e Annan si chiede se «voi americani, che avete fatto così tanto nell’ultimo secolo per costruire un efficace sistema multilaterale con le Nazioni Unite al loro centro, siate proprio sicuri di non averne perfino più bisogno di 60 anni fa, e che il sistema non abbia più bisogno di voi».
E poi: «Quando il potere, specialmente il potere militare, viene esercitato, il mondo lo considera legittimo solo se convinto che ciò stia avvenendo per uno scopo giusto, per un obiettivo largamente condiviso e in accordo con le norme largamente acettate». Fate voi – dice implicitamente Annan al suo uditorio – il paragone con ciò che invece è accaduto con l’invasione dell’Iraq. Ma poi – come dando seguito al paragone che sicuramente ognuno ha fatto per conto proprio – ricorda che «i governi devono essere responsabili delle loro azioni non solo sul fronte interno ma anche nell’arena internazionale. Ogni Stato deve rendere conto agli altri Stati delle sue azioni,.. ed è importante che le istituzioni internazionali siano organizzate in un modo equo e democratico che dia ai poveri e deboli una certa influenza sulle azioni dei ricchi e potenti».
Di qui il suo rammarico, anche, per l’azione degli Stati uniti tesa a bloccare la riforma del Consiglio di sicurezza, quando invece di allargarlo sostanzialmente si impuntarono sull’inserimento in esso del Giappone e pochi altri Paesi.