Lucio Fontana, in viaggio oltre la tela

Una rassegna sul grande artista nel borgo abruzzese di Castelbasso, aperta al pubblico fino al 28 agosto

Lucio Fontana sta al cielo come Alberto Burri sta alla terra. Laddove il cielo di Fontana non è fatto di nuvolette romantiche o di liriche melodiose trasferite in pittura, ma di spazio infinito, di aspirazione infaticabile al “per sempre”. Laddove la terra di Burri non è fatta di zolle informi e di altri detriti, ma di cruda e “realistica” rappresentazione della “condizione umana”, attraverso l’uso di una materia ancorata alla sua gravità.
Sarebbe un errore, però, considerare il primo soltanto un geniale ma “vago” inventore di buchi e di tagli su carta o su tela e il secondo uno spavaldo e terragno manipolatore di materie dozzinali (i sacchi, i legni, i ferri, la plastica).
C’è in Fontana un attaccamento al mondo testimoniato da un’arte che all’assillo del limite (nello spazio e nel tempo) concede il conforto di uno scatto in avanti: oltre il “muro” della tela. Come c’è in Burri la spirituale consapevolezza che nella materia da lui lavorata è racchiuso tutto il mistero di una esperienza intrisa degli ideali più elevati (la forma, la tradizione, la sapienza dei colori ad esempio} e, insieme, delle contingenze più miserevoli e opache. La materialità di un’aspirazione tutta umana al superamento del limite e la capacità immateriale di trovare l’infinito guardando “ad altezza d’uomo” individuano, rispettivamente, anche se può apparire un paradosso, l’umanità dello spazialista Fontana e la spiritualità del materico Burri.
Una testimonianza di questo lavorio lo si ritrova nella mostra “Lucio Fontana e la sua eredità”, in calendario fino al 28 agosto, che rappresenta il fiore all’occhiello della manifestazione organizzata dall’Associazione amici per Castelbasso. La mostra, curata da Silvia Pegoraro, è ampia, coerente e “tirata” rigorosamente come non capita spesso nemmeno negli ambienti museali più celebrati e canonici. Il Palazzo scelto e restaurato è adattissimo allo scopo di ospitare la mostra. L’allestimento non è da meno. Le trenta opere esposte di Lucio Fontana sono state accuratamente scelte per indagare uno dei Periodi più innovativi dell’artista italiano di origine argentina (1899 Rosario di Santa Fé – 1968 Comabbio), quello tra gli anni ’50 e ’60, che ha avuto forti conseguenze su quegli artisti che furono e sono ancora interessati a raccogliere la sua eredità.
Fra questi: Castellani, Bonalumi, Manzoni (con un bellissimo Achrome del 59), Scheggi, Alviani (superbi i suoi Forma O e Alluminio rispettivamente del ’60 e del 58-60), Colombo e Varisco sono gli autori storicizzati, dei quali Silvia Pegoraro presenta una selezione di opere. Ad essi si affiancano alcuni giovani interessanti nel panorama degli artisti emergenti: Pino Barillà, Carlo Bernardini, Nicola Evangelisti, Paolo Radi e Emanuela Fiorelli (da segnalare il suo Un ponte per Simona del 2004 e Spazio iperconnesso del 2005).
«Io buco, passa l’infinito, di lì, passa la luce, non c’è bisogno di dipingere…», ritornando a Fontana con una delle sue fràsi più celebri, osserviamo con quale spavalda chiarezza la sua sfida sia lanciata al mondo. Anche sul piano teorico lo spazio virtuale e metaforico dell’opera viene violato e questa deflorazione la consegna allo spazio reale. Non ci sono più distinzioni tra un qui e un altrove.
L’ardimento di un’idea apparentemente semplice apre l’opera al mondo, come non era mai accaduto prima. Arruola la materia e lo spazio in un’idea integrale di arte che contesta alla radice la visione dualista del pensiero occidentale. Ambienti straordinari realizzati con neon e lampade di Wood contribuiscono a rafforzare questa idea del tutto che l’opera fa sua.
Il Primo manifesto dello spazialismo firmato da Fontana aveva aperto questa stagione sin dal ’47. Seguirà il grande ciclo dei Concetti spaziali fino ai già Citati “tagli” su tela del ’58, con la sovrapposizione intermittente di materiali vari (vetro, lustrini, sabbia, gesso), fino alle sculture in bronzo Natura, ai Teatrini e ai Crateri. Un’infinità di successi e riconoscimenti che culminerà con l’assegnazione del Gran premio della pittura alla Biennale di Venezia del 1966, due anni prima della morte.
Di questa carriera entusiasmante la mostra di Castelbasso non poteva fornire una ricapitolazione completa, sarebbe stato pretendere troppo. I lavori esposti, tuttavia, fra i quali alcune chicche una rara opera su carta della Collezione Franco di Torino e uno splendido crocefisso in ceramica degli anni ’50- sono sufficienti a fornire un’idea puntuale e stimolante della ricerca di Lucio Fontana nei suoi anni migliori.