«Qualcuno doveva aver diffamato Josef K., perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato…». L’incipit del Processo sovviene immediato, come le cose trovate senza cercarle, il mondo kafkiano è già lì, sfondo adeguato alla percezione in parole dei «cancellati»: le donne e uomini nati o comunque vissuti e residenti da anni in Slovenia, che senza capire improvvisamente si sono trovati il vuoto intorno, anzi sono divenuti essi stessi il «vuoto»,fantasmi, coloro che appaiono ma non sono. Privati d’improvviso dei diritti e fin dei documenti – di quello statuto della «cittadinanza» che nel moderno via via diviene indispensabile conferma dell’essere e dell’essere riconoscibili agli altri – privati perciò delle «basi legali dell’esistenza».
L’angoscia persecutoria del non sapere perché evocata da Kafka, vive immediata nelle parole di Milan Makuc, che al trovarsi improvvisamente straniero in patria, presenza illegale sul territorio sloveno in cui è vissuto, pensa che la causa deve essere stata un misteriore errore. Poi la polizia davanti a casa, le sue cose giù in strada, l’incubo si materializza. E non ci sono neppure le parole per dirlo, come si fa a spiegare che quelli come lui sono stati cancellati con un’operazione segreta del ministero degli interni? Come si fa a tradurre la dismisura formale di quell’atto nella lingua materna concreta del vivere quotidiano? «Forse la cancellazione è troppo complessa per una persona comune, e poi, se uno capisse comincerebbe a dubitare della giustizia…».
Milan e altri «cancellati» chiedono ora se quella giustizia può esistere alla Corte europea dei diritti umani, ricorrono contro la Repubblica slovena che pure ha una Costituzione in cui è scritto che garantisce «la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali a tutte le persone che si trovano sul suo territorio, indipendentemente dalla loro origine nazionale, senza alcun tipo di discriminazione». Dismisura di nuovo della forma, per un agire che viceversa tenta una base «etnica» per la cittadinanza.
Ma è una peculiarità aberrante delle istituzioni slovene, o non piuttosto un caso concreto esplosivo, quello dei «cancellati», che rinvia diritto alle ambigue basi della «cittadinanza europea»? In quella Costituzione che è stata bocciata l’Unione rinculava di fronte alla stessa prima definizione fondamentale: sancendo che non potevano dirsi «cittadini europei» tutti coloro che «risiedono» sul continente, ma solo quelli che già sono riconosciuti tali nei singoli stati nazionali, o che i singoli stati decidono, a discrezione, nei modi e nei tempi, di promuovere all’ambito titolo – se si tratta di donne e uomini venuti da fuori, pur se a milioni vivono e «risiedono» permanentemente da anni sul loro territorio. Quel fondamento è da riscrivere.