Lotta di classe stile call center al Mittelfest

Moni Ovadia dirige per la terza volta il Mittelfest, e questa rassegna che ha eletto da sempre a suo baricentro la cultura dell’Europa centrale e orientale, porta ancora di più la sua impronta. Anche se, alla vigilia della sua riconferma per altri due anni, venti sotterranei sembrano voler soffiare contro di lui, per uno dei soliti contradditori «misteri» della sinistra.
Ma Ovadia, sempre solare, non sembra curarsene, e ha programmato la rassegna attorno a un tema, quello del lavoro, maledettamente d’attualità, anche se poco in auge tra i nostri intellettuali. Lui personalmente ha ripreso un testo di un altro autore assai poco di moda a cinquant’anni dalla sua morte, Bertolt Brecht, e con la regia di Roberto Andò ha portato in scena Le storie del signor Keuner. Uno spettacolo denso e stimolante che guarda alla nostra realtà di oggi dalla prospettiva brechtiana, che si allunga a Che Guevara e a Falcone e Borsellino. Lo spettacolo è comunque destinato a girare nella prossima stagione, e ci sarà modo di riparlarne.
Quasi paradossalmente «complementare», a ritrarre un paese sospeso tra mancanza di prospettive e azzardo, sta il lavoro che Paolo Rossi va costruendo con due gruppi di giovani attori, unificati in una significativa Confraternita dei Precari, attorno al tema del gioco d’azzardo. Il punto di partenza è proprio Il giocatore di Dostoevskji, seppure mescolato ad altre scene di gioco teatrale. E naturalmente all’incontenibile e distruttivo humour di Paolo Rossi, che sta in scena come narratore/demiurgo, quasi a sfatare un’altra leggenda della tradizione teatrale, tanto che il suo ruolo sarebbe quello del gestore mafioso della casa da gioco. I giocatori parte sì dalle situazioni di tutti personaggi legati al tavolo verde, ma in realtà si rivela quasi un «corso superiore» di commedia all’italiana, tanto è lo slancio con cui i giovani attori si impegnano a costruire caratteri o a portare al parossismo situazioni e perversioni di chi se la gioca tutta. Quel mondo tollerato dalle istituzioni (che anzi vi lucrano) ma condannato dalla morale borghese, stimola creatività e anche qualche spiritaccio negli interpreti, presi per primi dalla specularità tra lo scenario da casinò e i nostri quotidiani casini. Per ora è solo uno studio, destinato a crescere, in ritmo e ferocia, per la prossima stagione.
Ma l’evento esclusivo e centrale di questo quindicesimo Mittelfest è stata la memorabile serata di martedì, dedicata alla cultura del lavoro (curata da Mario Brandolin e Walter Colle). Una serata con molti nomi di richiamo invitati a confrontarsi con un tema cruciale, e che per il pubblico ha significato una sorta di percorso direzionato, cominciato con l’ascesa, prima del tramonto, alla cava di Tarpezzo, antico sito di arte e di fatica per i cavatori di pietra «piasentina», su uno dei versanti bellissimi delle valli del Natisone, proprio una manciata di chilometri prima del confine sloveno. Su quella postazione, terragna eppure separata, ha cominciato a echeggiare la musica con le parole di Storie di lavoro: quello precario, disarticolato e frustrante di oggi, e quello gravido di sudore e speranze dell’altro ieri e di un momento fa. Se Fabio Vacchi ha aperto la serata mettendo in musica il testo di Aldo Nove su call center e precariato (Mi chiamo Roberta, ho quarant’anni, guadagno duecentocinquanta euro al mese), la conclusione è stata di Ascanio Celestini sempre più lucido e geniale nel cogliere lo scatto del tempo attraverso un lavoratore del call center di Cinecittà, con un brano mozzafiato dei suoi Appunti per un film sulla lotta di classe.
Moni Ovadia, che qui fungeva anche da apripista (oltre che da «titolo di coda») aveva del resto accennato alla trasformazione rapidissima di costume e comportamento, che vorrebbe mutare in consumatori quei lavoratori che sono sono alla base del primo articolo della Costituzione (con applauso roboante dei millecinquecento spettatori ai risultati del recente referendum). E allora, per tenere la memoria ma anche la vitalità delle immagini e dei suoni che il mondo del lavoro ha vissuto e secreto negli ultimi due secoli, ecco Giovanna Marini, la madre riconosciuta di ogni musicalità lavorativa, che con Patrizia Nasini e Francesca Breschi ci sferra il pugno allo stomaco di una classe che si fa leader civile, precipitandosi sui rischiosi Treni per Reggio Calabria, e Alessandra Kersevan con Al lavor disfortunade, lacrime di fatica nella dolce lingua ospite del Friuli. Mauro Corona, poeta ruvido di un territorio che da qua si allunga verso il Veneto di Longarone, aggredisce la facile morale perbene, mentre Francesca Breschi, intervalla gli interventi degli altri con melodie e testi che scandiscono immagini toccanti. Marco Paolini, con Cipolle e libertà, dà col suo stile inimitabile la biografia di un operaio della Riello. Ma dà pure la misura della sua potenza teatrale, imparagonabile a quella assai più condizionata della tv (dalla serie di Report dello scorso anno nasce il frammento).
Ma la sorpresa più grande è un duo ancora poco visto, cui Gian Antonio Stella grande firma del Corriere dà il tocco di parole pesanti quanto commoventi, e Gualtiero Bertelli il sound dell’internazionale veneta dei lavoratori. La storia dell’emigrazione, con tutte le sue sfaccettature, si scopre come un libro di testo da rendere obbligatorio nelle scuole liberate dalla Moratti. Un trionfo che meriterà un maggior seguito. Ma ognuno dei protagonisti, davanti alla grande parete di pietra, divenuta cava di memoria e di emozioni, porta un pezzo che subito è insostituibile. Come Ferruccio Brugnaro, l’operaio poeta di Marghera. Quando all’una di notte, dopo tante ore di spettacolo, cantano tutti assieme al pubblico l’inno glorioso Se otto ore vi sembran poche, qualcosa, nella dimensione non solo del tempo ma anche di quello che bisogna pensare, nella vecchia cava è stato già scavato.