L’editoriale di Liberazione dello scorso 31 ottobre mi ha colpito e sorpreso. L’ho letto in ritardo, su internet, poco prima di sedermi a vedere la prima puntata di “Decameron”, il ritorno in tv di Daniele Luttazzi. Sarà forse per questa coincidenza che a colpirmi non sono state le dure parole di Liberazione sul governo, sarà forse perché ho sentito andarci ben più pesante lo stesso Luttazzi con un vero e proprio atto di accusa nei confronti di chi ha deluso tante aspettative nel paese, nei confronti di chi si ostina a chiamare “missioni umanitarie” le guerre, di chi nulla o quasi ha fatto fino ad oggi per ridurre sensibilmente la spirale di precarietà che soffoca ogni giorno di più le vite di milioni di uomini e donne, in particolare fra le giovani generazioni. Esercizio facile insomma inchiodare questo governo agli impegni e alle promesse non mantenute, smascherarne il profilo non-progressista e subalterno ai poteri forti. Altrettanto facile è però disegnare la necessità della nostra permanenza attraverso la cupa alternativa che si disegnerebbe con nuove elezioni o con qualsiasi altra alleanza di governo stanti le condizioni date, così come stucchevole risulta la coatta ripetizione della formula secondo la quale per noi quello risulta uno spazio esclusivamente tattico senza mai sottoporre questo assunto alla verifica dei fatti.
Personalmente trovo invece che il nodo dell’intervento di Sansonetti si collochi ben oltre la semplice durata e le sorti di questa traballante maggioranza e che il suo cuore non viva nel mero giudizio sul governo ma in quel termine “domanda (proibita)” che parla di come una libera e pubblica discussione in merito alla nostra collocazione nel governo e alle sue modalità sia diventato per molti mesi il nostro inviolabile tabù. E’ su questo tema che vorrei proporre una discussione nella mia organizzazione e nel partito tutto. Abbiamo scelto la collocazione di governo occupandoci di definire prima un chiaro orizzonte strategico in cui questo passaggio rimanesse inchiodato ad un elemento esclusivamente tattico – del qui ed ora – a fronte del quale l’investimento fondamentale restava collocato nel valore e nella potenza costituente dei movimenti ed il cuore, il baricentro dell’azione rimaneva ben saldo nella società e nei suoi conflitti. Questo è ciò che è successo? Questa è la linea che abbiamo praticato davvero e fino in fondo? Si tratta insomma più che dell’ennesimo bilancio in merito alle politiche di questo esecutivo, di domandarci se abbiamo fatto ciò che – fra il caldo entusiasmo della fiera di Venezia, della liberazione di Giuliana e la neve e il freddo del Lido – ci eravamo detti due anni e mezzo fa… Dal governo nazionale a quello degli enti locali le istituzioni e la nostra collocazione in esse sono rimaste variabili strumentali oppure sono, molto spesso, divenuti il baricentro e l’orizzonte ultimo della nostra azione politica? Ci siamo detti che nonostante i rapporti di forza a noi sfavorevoli l’Italia sarebbe cambiata davvero perché noi, insieme alla società civile, ai movimenti, alle forze sociali ed alle lotte di comunità avremmo spostato in avanti le politiche concrete di un governo che avrebbe dovuto mostrarsi permeabile alle spinte sociali… Se da una parte è vero che i movimenti – o quelle che sono le sue rappresentanze – hanno mostrato scarsissima autonomia rispetto al quadro di governo (ma questo è altro campo di ragionamento che meriterebbe altrettanto spazio), il governo, a partire dalla prima importantissima verifica di Vicenza, ha dato prova di questa permeabilità? E noi abbiamo continuato a individuare nella costruzione dei movimenti, dei conflitti, il motore primo della nostra iniziativa? Noi, attraverso il governo come strumento, abbiamo cambiato l’Italia davvero oppure è il governo che, spesso, ha cambiato noi? In molti comportamenti tanto sui territori quanto a livello centrale, nelle dichiarazioni di alcuni compagni, io vedo un partito cambiato. Per questo, credo, il tema che oggi abbiamo di fronte è innanzitutto come combattere passivizzazione, disaffezione, rassegnazione… Qualche tempo fa un compagno impegnato in un autorevole ruolo istituzionale mi diceva che se ieri pensava di cambiare il mondo senza prendere il potere oggi gli pare di aver preso il potere senza cambiare il mondo… Una battuta (auto)ironica ed evidentemente eccessiva, che segnala però come il profilo di ragionamento con cui avevamo provato a pensare in modo innovativo e ‘rivoluzionario’ la nostra presenza nelle istituzioni rappresenti un tassello fondamentale del nostro progetto politico e di passaggi chiave quali la critica del potere e la scelta del primato della non-violenza. E’ per questo che dobbiamo ora provare a sottoporlo a verifica. Un ragionamento da riaprire fra noi con un’attenzione particolare ad una generazione che, cresciuta già oltre il ‘900, dentro la crisi della politica e delle ideologie, ha visto dentro questo percorso di critica del potere, maturato nell’esperienza del movimento dei movimenti, la possibilità di ritrovare passione e speranza nella politica.
Personalmente sono fra coloro da sempre convinti della non-autosufficienza di Rifondazione, mi colloco dentro un progetto, il nostro, che ha sempre scommesso sulla contaminazione come principio fondamentale dell’agire politico. Per questi motivi guardo con favore e lavoro ai processi di unità a sinistra in atto e all’orizzonte. Sono tuttavia contrario a pensare che in essi si trovi la panacea di tutti i mali, che solo lì si collochi la via maestra per l’uscita dalla crisi. Tendo infatti ad identificare la crisi della politica con l’estinzione del compito che ad essa era stata assegnato nella modernità: la possibilità di determinare mutamenti nelle condizioni di vita della gente. E la crisi della sinistra è più o meno la stessa cosa, laddove la fondazione stessa della categoria politico-filosofica di sinistra alludeva esattamente alla possibilità dei popoli di mutare il corso materiale della (loro) storia. Credo che per tentare di capire entrambe si debba anche provare ad ascoltare il fondo della bile e della pancia della gente: è in quel “tanto sono tutti uguali!” che batte il cuore della crisi. Insomma quando tu voti qualcuno per ridurre la tua condizione di sfruttamento e quello ti abbassa il costo del lavoro straordinario, quando voti contro un governo perché è corrotto e ne mandi su un altro che trasferisce un magistrato perché indaga su premier e guardasigilli, quando ritorni a votare nella speranza di uscire da una insopportabile situazione di incertezza lavorativa e dopo un anno e mezzo sei rimasto nella medesima condizione di invisibilità e precarietà che attanaglia una intera generazione; quando… ti sale una grido in gola che non è “speriamo che la sinistra si unisca per essere più forte”, ma assomiglia più spesso al “butto via la tessera elettorale” oppure al “va bene siete tutti uguali e non migliorerete mai la mia vita, ma almeno toglietemi tutta questa gente straniera che sta in mezzo alla strada e mi impaurisce”, perché il problema della paura esiste, eccome…
Insomma ancora una volta bisogna – materialisticamente – usare l’efficacia come categoria fondamentale per individuare il problema e riconoscere che non esiste nella nostra gente la percezione dell’efficacia di questo governo nel mutare le condizioni materiali di vita di chi l’ha votato.
Capisco e in buona parte condivido due argomenti sostanziali per non rompere domani, il primo riguarda la necessità che chi ha costruito il tradimento del programma dell’Unione venga allo scoperto; il secondo inerisce invece la necessità vitale di arrivare ad una legge elettorale più democratica che garantisca una rappresentanza giusta. Sento allo stesso tempo fortissima la necessità di recuperare – dentro e fuori – la percezione smarrita di una nostra sostanziale alterità da un quadro politico rispetto al quale la disaffezione e il disgusto montano ogni giorno di più (cos’altro può determinare, in ultimo, la vicenda della commissione d’inchiesta su Genova?) ed in cui l’allontanamento dalla politica diventa un processo che non si misura più nel medio periodo, ma quotidianamente. Credo che in questo quadro piuttosto cupo la straordinaria piazza del 20 ottobre sia stata la dimostrazione della forza, della generosità, della speranza della nostra gente, di chi non si vuole rassegnare a pensare che questo sia l’unico mondo possibile, ma credo che si abbia il dovere oggi di dare a questo popolo risposte concrete.
Voglio infine – controcorrente – ringraziare Liberazione per avere aperto questa discussione pubblica, un giornale di cui a volte condivido le posizioni, altre volte no, ma che credo sia tanto più un valore per il nostro partito quanto più si dimostra libero e di qualità, in un rapporto, certamente di fiducia, ma non di dipendenza.
*Coordinatore nazionale Giovani Comunist*