L’avvio di unnuovo governo offre l’occasione per cercare sintesi originali tra le diverse idee presenti nella coalizione. Sulla questione della pace l’occasione si sta già perdendo: un ritardato ritiro dall’Iraq, per non dispiacere troppo allo zio Sam, potrebbe venir contraccambiato da nuove truppe e aerei in Afghanistan. Qui si prepara per l’estate un’offensiva nel sud, contro le roccaforti storiche dei talebani. La presenza italiana a Kabul si distingue così sempremeno da quella aNassiriya, nonostante l’investitura Onu alla missione Nato Isaf. Non basta dire che «la missione Isaf ha avuto dall’Onu un mandato robusto » per trasformare una presenza militare nata permantenere e costruire la pace, in una guerra di controguerriglia agli ordini degli americani. Quello che emerge, a cinque anni e mezzo di distanza dall’attacco americano all’Afghanistan, e a tre anni da quello all’Iraq, è il completo fallimento delle prospettive di nation building e di «esportazione della democrazia». I risultati ottenuti sono l’eliminazione di due regimi ostili agli Stati uniti e il precario controllo di grandi quantità di petrolio e gas, al prezzo della distruzione sistematica di quei paesi, centinaia di migliaia di morti e conflitti interni destinati a durare decenni. La missione «militare ma non di guerra » italiana a Kabul non è riuscita ad accompagnare la ricostruzione e pacificazione del paese, e la politica dovrebbe prenderne atto. Il contributo che ci viene ora richiesto dalla Nato in Afghanistan rischia di essere quello delle «nostre» bombe sganciate sui civili dei villaggi del sud. E’ da questa realtà politica, anziché dall’ assetto istituzionale della missione, che la discussione sulla presenza militare a Kabul dovrebbe partire. Mala discussionepotrebbe guardare oltre Kabul. L’esperienza di questi anni cancella ogni illusione che interventi militari realizzati dalle forze armate occidentali possano contribuire alla soluzione dei conflitti e alla costruzione della pace. Le notizie di questi giorni ci parlano dell’aggravarsi della guerra civile in Somalia, teatro tredici anni fa di uno dei primi interventi americani di questo tipo, con italiani al seguito; da allora la Somalia non ha più avuto uno stato funzionante. In Darfur, anch’esso sotto l’ala oscura del petrolio, le prospettive di intervento occidentale accrescono, anziché ridurre, l’instabilità, dopo il delinearsi di un accordo tra governo e gruppi della resistenza. Perfino lamissione Onu nella transizione del potere a TimorEstnon ha impedito la lenta disgregazione del piccolo paese, sotto le pressioni della povertà, dei giacimenti di petrolio e delle tensioni etniche.Molti altri casi – Kosovo, Haiti, Ruanda, Congo – ci raccontano la stessa storia: terribili orrori, migliaia di vittime, interventi militari che non sanno risolvere i confilitti nè costruire la pace. E’tempo di riconoscere che la logica militare non può dare risposte ai conflitti, alla crisi degli stati più fragili, alla loro dissoluzione sociale. Prevenire i conflitti richede oggi soluzioni politiche e uno spazio praticabile di sviluppo economico e sociale. E’ questo il problema nuovo che la politica italiana ed europea potrebbe porsi. Gli strumenti sono noti. Mediazioni e conferenze di pace, coinvolgimento della società civile, cancellazione del debito, aiuti economici, investimenti a lungo termine di imprese che non puntino al saccheggio di risorse naturali e profitti immediati, accordi commerciali protetti, aumento della spesa sociale e rispetto degli obiettivi di sviluppo del Millennio. Se proprio serve un corpo di spedizione, siano allora migliaia di «caschi bianchi», volontari e civili, per ricostruire i paesi e dare un senso nuovo alla cooperazione dell’Italia.