L’origine della crisi del sistema finanziario

La crisi finanziaria del Paese, unitamente alle dimissioni del Governatore della Banca d’Italia e al disegno di legge sulla tutela del risparmio, sono l’altra faccia della medaglia delle politiche finanziarie adottate in questi ultimi 15 anni. In un certo senso, sorprende la sorpresa di molti interpreti della politica sulla crisi del sistema economico e finanziario del Paese. La liberalizzazione del mercato, assieme alla cessione di parte delle partecipazioni pubbliche, il Patto di Stabilità e Sviluppo, che «obbliga» i Paesi membri al pareggio di bilancio nel medio periodo, costringe molti Stati a realizzare politiche di dismissione della proprietà pubblica per agganciare i vincoli del trattato UE. L’attuale discussione sulla ridefinizione dei criteri di attuazione del Patto di Stabilità europeo non aiuta i Paesi fortemente indebitati. Infatti, il deficit del bilancio pubblico sarà valutato sulla base della situazione economica, ma anche sulla sostenibilità del debito pubblico. Inoltre, le privatizzazioni in Italia hanno ulteriormente indebolito il sistema economico e finanziario. All’imprenditoria privata non è sembrato vero, attraverso le privatizzazioni di reti pubbliche e servizi, di avere-creare occasioni di attività in massima parte svolte al riparo della concorrenza dei paesi emergenti di maggior successo. Le stesse banche d’affari e tutto il sistema creditizio hanno intravisto da subito i guadagni potenziali connessi alle privatizzazioni che avrebbero potuto realizzare diventando parte indispensabile del meccanismo. Non a caso se ne fecero paladine entusiaste e autorevoli, talvolta addirittura minacciose nei confronti di stati recalcitranti o anche solo esitanti a imboccare la strada delle dismissioni. Ma in Italia si è fatto di più: ai cittadini, oltre alla possibilità di una tregua fiscale, fu fatta altresì balenare la possibilità che con le privatizzazioni e una energica concorrenza in questi settori sarebbero aumentate le opzioni di scelta assieme ad una riduzione dei prezzi dei servizi.

Con le privatizzazioni, sostanzialmente, si voleva ridefinire l’intreccio tra finanza e industria al fine di creare le condizioni necessarie per la nascita di filiere produttive originali e una maggiore e più qualificata internazionalizzazione delle imprese nazionali e, per questa via, determinare un riposizionamento strategico dell’Italia sul mercato internazionale. Oggi, dopo 10 anni di privatizzazioni siamo tutti più poveri e con minori strumenti per «aggredire» i vincoli del Paese. Dal lato finanziario, le misure adottate dal Paese in materia fiscale all’inizio degli anni `90, per esempio quelle sulla previdenza integrativa o quelle che spingevano verso la nascita di nuovi soggetti giuridici (imprese) per agganciare il capitalismo manageriale di tipo europeo, hanno reso meno appetibili i titoli di stato e l’interesse collettivo per i servizi universalistici, e per questa via spinto il risparmio delle famiglie verso i fondi di investimento e il mercato obbligazionario e azionario. I consumi delle famiglie negli anni `90 non sono diminuiti in quanto i rendimenti decrescenti dei titoli di stato sono stati sostituiti da quelli, più alti, dei fondi di investimento.

Sono state soprattutto le privatizzazioni, assieme ad altre misure fiscali, a stimolare e orientare il risparmio verso questi nuovi strumenti finanziari, introducendo elementi di azionariato diffuso. Lo sviluppo di questo «paradigma», almeno fino al 2000, non trova nessun ostacolo ed è favorito dalla forte crescita della Borsa in termini di capitalizzazione, in gran parte attribuibile alle ex partecipazioni statali. In un certo senso le misure fiscali e politiche adottate hanno intercettato un bisogno vero del Paese: da un lato il sistema delle imprese che aveva bisogno di nuovi e più robusti finanziamenti per acquisire nuove società al fine di «traguardare» una dimensione di scala adeguata per «competere» sul mercato internazionale, da un altro punto di vista la necessità dei risparmiatori di trovare uno sbocco «finanziario» più redditizio per fare fronte al decrescente rendimento dei titoli di stato.

L’aspetto più «inquietante della riallocazione del risparmio delle famiglie è legato al listino del mercato della Borsa e agli effetti finanziari. Infatti, i titoli di imprese pubbliche oggetto di Opv (offerta pubblica di vendita) hanno rappresentato da prima il 32,5% della capitalizzazione complessiva della Borsa (1992), fino al 51,9% del 2000. Sostanzialmente soltanto attraverso la dismissione delle ex Ppss è stato possibile fare crescere la borsa. Il sistema privato nazionale ha mancato un’occasione preziosa per trovare un equilibrio superiore in termini di governace e di capacità di strutturare economie di scala adeguate, fino a maturare delle contraddizioni paurose: una volta gli imprenditori, con l’aiuto dei loro commercialisti passavano le notti a falsificare i propri bilanci al fine di nascondere gli utili al fisco per pagare meno tasse. Adesso il mondo è capovolto. Gli stessi imprenditori passano notti insonni, sempre con i loro commercialisti, a falsificare i bilanci al fine di nascondere le perdite dovute alla cattiva gestione.