Quando qualcuno cominciò a parlare di declino dell’Italia in molti gridarono allo scandalo. Oggi la parola declino farebbe ridere se non ci fosse da piangere. Recessione è una parola fredda, tecnica. Diciamo allora che i poveri sono più poveri e i ceti medi finiscono la benzina a metà mese. I dati di ieri sulla nuova caduta del Pil, il crollo dell’esportazione e il calo delle importazioni ci dicono che la ripresa dei consumi interni è una chimera e che in fondo al tunnel non si vede luce, anzi non si vede la fine del tunnel. Finanza creativa e giochi delle tre carte non sono una risposta tollerabile, per l’Europa come per i cittadini che pure hanno preoccupazioni molto più concrete e meno contabili della Bce e di Almunia. Berlusconi minaccia di vendere i beni di famiglia (la nostra, non certo la sua), dalle spiagge alle strade: ha un anno di tempo per consegnare un deserto a chi vincerà le elezioni politiche.
Non è necessaria la laurea in economia a Cambridge o ad Harvard per intuire che un’ulteriore compressione dei salari – accompagnata a pratiche sempre più feroci di precarizzazione e a una crescita della disoccupazione – non farebbe che comprimere i consumi interni. Per non parlare dell’aggravamento delle condizioni materiali della maggioranza della popolazione.
Eppure, da Confindustria e palazzo Chigi rimbomba la solita ricetta: abbattere il costo del lavoro per recuperare competitività e aumentare la flessibilità. Questo hanno mandato a dire, ancora ieri, al milione e mezzo di metalmeccanici che hanno scioperato per il rinnovo del contratto e contro la politica del governo e l’arroganza di un padronato che della crisi è uno dei due maggiori responsabili. Il contratto si può fare, dicono in Federmeccanica, ma alle nostre condizioni: 60 euro di aumento, qualche centesimo in più se accettate di gettare alle ortiche ogni vincolo prendendo atto che i lavoratori sono una variabile dipendente del capitale, pura appendice delle macchine. Hanno una cosa sola in testa, bastonare il can che affoga.
Non è la prima volta in Italia che lo scoglio più duro contro cui vanno a sbattere le politiche liberiste e antioperaie è rappresentato dalla resistenza dei metalmeccanici. In qualche caso, in passato, sono stati lasciati soli dalla politica e dalle confederazioni, con il risultato che ad affogare furono in tanti. Se l’esperienza servisse a qualcosa, il centrosinistra dovrebbe porre termine allo spettacolo inguardabile delle risse interne incentrate non sui programmi ma sulle sigle e ascoltare la voce di quel milione e mezzo di uomini e donne che ieri hanno vuotato le fabbriche per dire che un’alternativa è possibile. Sarebbe un ottimo contributo a quella «Fabbrica» delle idee da cui dovrebbe uscire una concezione della società diversa da quella di chi vuole bastonare il can che affoga. Se invece l’idea che prevarrà nel centrosinistra sarà quella di comprare qualche pentito dello schieramento berlusconiano per continuare la stessa politica di Berlusconi, riveduta e corretta, ad affogare insieme ai metalmeccanici sarà anche il centrosinistra.