Lo deve aver capito perfino George W. Bush: non si può gestire il pianeta senza le Nazioni Unite. Ostaggio ideologico dei neocons, il governo americano si era illuso che bastasse una buona combinazione di potere militare e retorica per piegare il mondo ai propri voleri. E, invece, l’Afghanistan continua ad essere uno stato fallimentare, l’Iraq lo è diventato. Le libere elezioni, piuttosto di essere una panacea, sono diventate dei censimenti etnici che hanno inasprito conflitti e fomentato guerre civili. L’obiettivo declamato di favorire la democratizzazione ha visto sì moltiplicarsi i suffragi, ma anche i clamorosi successi elettorali di Hamas e Ahmadinejad assai sgraditi all’Occidente. Non solo, la dottrina della guerra preventiva ha moltiplicato le aree di crisi e ha fatto risorgere la questione nucleare in Corea del Nord e Iran. Se gli stati scomodi sono a rischio di invasione, diventa logico che facciano del loro meglio per mettersi al riparo sotto l’ombrello nucleare. E in Iran il programma nucleare ha addirittura un consenso plebiscitario.
Il panorama dell’Assemblea Generale vede vasti scenari di crisi, a fronte dei quali può presentare una sola credenziale: essere riusciti, oltretutto tardivamente, a fermare il conflitto tra esercito israeliano e miliziani Hezbollah. La soluzione alla crisi si è trovata ricorrendo al multilateralismo e ai tradizionali armamentari della diplomazia piuttosto che al braccio di ferro. La saggezza europea (e italiana) ha dato qualche frutto. Sembra, insomma, delinearsi uno scenario nuovo: piuttosto che ricorrere alla periodica denigrazione dell’Onu, occorre casomai affidarsi alle sue cure. Il clima è insomma cambiato e chi ha continuato ad invocare l’Onu come strumento di gestione dei problemi globali, come la Francia, la Germania, la Spagna di Zapatero e il nuovo governo italiano, può rallegrarsene. Eppure, c’è un andazzo non troppo rassicurante: si ricorre alle Nazioni Unite e al multilateralismo solo dopo il fallimento della prova di forza. L’Onu diventa così una sorta di incaricato speciale per la spettacolare mission impossible, come quella nel Libano. E’ un rischio cui bisogna porre rimedio subito, colmando il divario tra le risorse e le responsabilità affidate al Palazzo di vetro.
Alla rinata missione Unifil è affidato l’onere di recuperare l’autorità e la credibilità dell’Onu persa a causa dell’invasione dell’Iraq. Eppure, questa missione ha mezzi assai modesti: l’Onu può distribuire i caschi blu, ma i soldati li devono fornire gli stati membri. Il macchinoso dispiegamento delle truppe, nonostante l’ampio consenso politico della missione, basta a rammentare che chi dispone dei copricapo non necessariamente ha anche il bastone del comando. Sarebbe, allora, il momento di ripropoporre con forza all’Assemblea Generale la necessità di creare un Corpo permanente dell’Onu cui contribuiscano un vasto numero di stati.
Questa sarà anche l’ultima Assemblea con Kofi Annan come Segretario Generale. Chi sarà dal primo gennaio 2007 a capo dell’Onu? Molti uomini sono candidati, e per la prima volta si pensa anche ad una donna. Ma si delineano solo due profili: l’ottavo Segretario Generale dovrà essere un Segretario o un Generale. Un passacarte obbligato a mediare tra le grandi potenze oppure un leader carismatico nell’imporre la propria agenda di Global Governance, di reperire finanziamenti per lo sviluppo, di garantire la pace. Sono passati dieci anni da quando Boutrous-Ghali fu messo alla porta per i suoi troppo ambiziosi progetti, ed è difficile che qualcun altro ci possa riuscire. A meno che non riscuota il credito dei maggiori azionisti dell’Onu. E sia americano. Quale, ad esempio, Bill Clinton. Gli Stati Uniti se lo meriterebbero: l’organizzazione è stata fondata dal loro 32mo presidente Franklin Delano Roosevelt, e la finanziano per un quarto del bilancio ordinario. Fino a quando l’inquilino della Casa Bianca sarà Bush, è assai probabile che molti stati guardino con favore ad un contrappeso che esprima la tendenza multilateralista e moderata della politica americana, un po’ come quando Jimmy Carter ricevette il Nobel per la pace in dissenso dall’invasione dell’Iraq. E se dovesse essere una donna? La famiglia Clinton ha già pronto il candidato: Hillary.