L’OMBRA DI PECHINO

Washington vuole controllare il greggio mediorientale per tenere a bada i potenziali avversari. Primo fra tutti, la Cina.

Undici anni dopo l’invasione del Kuwait, Saddam Hussein continua a essere al centro dell’attenzione degli Stati Uniti. L’ostinazione di Washington nei confronti dell’Iraq può spiegarsi con due elementi: il petrolio e la politica.
Ricordiamo in primo luogo che, negli ultimi cinque anni, gli Stati Uniti hanno continuato ad essere i primi consumatori e dunque i primi importatori mondiali di petrolio. Contrariamente a un’idea diffusa, gli Stati Uniti non dipendono molto dal petrolio del Medio Oriente. Nel 2000 meno di un terzo delle importazioni petrolifere degli Stati Uniti proveniva dai paesi del Golfo Persico. I principali fornitori di Washington restano l’America Latina e alcuni paesi africani come la Nigeria e l’Angola. Il Messico fornisce agli Stati Uniti la stessa quantità di petrolio dell’Arabia Saudita.
Il Medio Oriente rappresenta il 65 per cento delle riserve petrolifere mondiali.
A parte l’Iran e l’Iraq, i principali produttori della regione sono già strettamente legati agli Stati Uniti. Washington dispone di forze militari in Arabia Saudita (quasi cinquemila uomini) e adesso anche in Asia centrale.
Approfittando della guerra in Afghanistan, gli Stati Uniti hanno stretto nuove relazioni con l’Uzbekistan, il Tagikistan e il Kirghizistan. L’esercito americano occupa le vecchie basi Sovietiche di Sherabad e Shershiq in Uzbekistan quella di Manas in Kirghizistan.

Relazioni tese
L’ambizione degli Stati Uniti in Medio-Oriente, così come nella regione del Caspio, punta a controllare i giacimenti petroliferi, non tanto per il loro approv-vigionamento quanto per influire sui potenziali avversari. La Cina è la prima ad essere presa di mira: Pechino infatti si presenta come uno dei principali avversari militari e politici di Washington negli anni a venire. La Cina, la cui potenza economica e militare continua a rafforzarsi, non nasconde più le sue ambizioni. Una determina-zione che non fa che esacerbare le relazioni con gli Stati Uniti. Da qualche anno a questa parte le controversie si sono accumulate. Pechino è stata accusata di dedicarsi ad attività di spionaggio in campo nucleare sul territorio americano, poi ha protestato violentemente contro il coinvolgimento americano in Serbia. E la questione di Taiwan non smette di avvelenare le relazioni fra i due paesi.

Ripercussioni geopolitiche
Dal 1993 la Cina importa petrolio.
Oggi acquista all’estero un terzo del suo fabbisogno, il che la colloca al nono posto tra i paesi importatori di greggio.
Un situazione di dipendenza difficilmente conciliabile con il ruolo mondiale che intende svolgere. La diversificazione dei fornitori (Indonesia, Perù) avviata da Pechino non ha avuto risultati molto evidenti, visto che la maggior parte delle sue importazioni proviene sempre dal Golfo Persico. Una proporzione che continuerà aumentare nei prossimi decenni. Fra il 2005 e il 2020 il consumo di petrolio in Cina è destinato a raddoppiare Per quella data Pechino dovrà acquistare all’estero quasi la metà del suo fabbisogno principalmente in Medio Oriente. Ma la Cina non controlla né i giacimenti mediorientali né le rotte del commercio del petrolio.
Lo sfruttamento dei giacimenti del Mar Caspio è dunque considerato prioritario e dovrebbe permettere di ridurre la dipendenza energetica.

Con un governo alleato insediato a Baghdad, Washington controllerebbe le due principali regioni petrolifere mondiali, il Medio Oriente (55 per cento delle riserve mondiali escludendo l’lran) e il Mar Caspio (20 per cento delle riserve mondiali). In questo modo metterebbe un freno alle pretese politiche dei paesi asiatici, e più in particolare della Cina.
Ma il rovesciamento di Saddam Hussein avrebbe anche importanti ripercussioni geo-politiche. Per il momento l’Arabia Saudita è oggetto solo di critiche velate. Infatti gli Stati Uniti, ma soprattutto i loro alleati europei e il Giappone, dipendono in gradi diversi dal petrolio di Riyadh. Allo stesso modo il regno è elemento essenziale del dispositivo militare americano nella regione.
Tuttavia diversi rimproveri vengono mossi alla monarchia wahhabita, considerata oggi un santuario dell’islam radicale. Nessuno dimentica che fra i 19 kamikaze dell’11 settembre 2001, 15 erano cittadini dell’Arabia Saudita. E il principe Abdallah, che svolge attualmente le funzioni di reggente, suscita una certa diffidenza.
Con l’Iraq sotto la sua tutela, Washington potrebbe operare più liberamente un cambiamento geopolitico radicale a scapito dell’Arabia Saudita. Si possono prospettare diversi scenari, fra i quali lo smantellamento del regno.
I luoghi santi (La Mecca e Medina) rimarrebbero sotto l’autorità della famiglia Saud. In compenso, la ricca provincia dello Hasa (dove si trova la quasi totalità dei giacimenti del paese) potrebbe formare un emirato indipendente, che si metterebbe sotto l’ala protettrice dell’America.
Senza il petrolio, l’islam radicale vedrebbe inaridirsi una delle sue principali fonti di finanziamento. Un’ipotesi tanto più plausibile in quanto nello Hasa metà della popolazione è sciita. Vittima di ostracismo, questa minoranza non rifiuterebbe una simile prospettiva. Altra soluzione da prendere in considerazione, gli Stati Uniti potrebbero esigere profonde riforme istituzionali e in particolare imporre il successore di re Fahd.
La politica americana in Iraq non può essere ridotta a una vendetta filiale, ma s’inserisce in un progetto più ambizioso: disegnare le prossime frontiere del Medio Oriente.
cp