L’ombra dell’impeachment si affaccia anche su Bush

«Impeachment». La parola striscia di nuovo, come un brivido, lungo la schiena degli Stati uniti. La pronuncia e rivendica in tono deciso una schiera crescente di cittadini che si sentono raggirati e offesi da un presidente che li ha trascinati in guerra con la menzogna e in nome della lotta al terrorismo li ha messi illegalmente sotto sorveglianza infischiandosene delle regole costituzionali, che li ha esposti alla riprovazione mondiale consentendo abusi, torture e gravi violazioni dei diritti umani contro persone arbitrariamente designate come «nemici combattenti». Iniziata in sordina, negli ultimi mesi la campagna si è estesa, alimentata da nuovi documenti, rinvigorita dall’indecente gestione della catastrofe Katrina, rinfocolata dalle ultime vicende, inclusa quella che indica in George Bush il responsabile primario delle indiscrezioni alla stampa che portarono a scoprire l’identità di un’agente della Cia.
Luogo di propagazione per eccellenza, il web. Su impeachbush.org, fino a ieri 709.840 persone avevano sottoscritto un referendum per sostenere l’impeachment del presidente e aderito alla campagna dell’organizzazione che, con una forte campagna pubblicitaria sta premendo sul Congresso perché avvii l’iter di messa sotto inchiesta del capo della Casa bianca. L’indignazione e la rabbia si incanalano anche verso afterdowningstreet.org e impeachcentral.com, e tanti altri blog localizzabili su Internet. A muoversi è soprattutto il popolo democratico il cui risentimento è stato nutrito in sei anni di una amministrazione che ha sistematicamente ignorato e calpestato un intero sistema di valori. Il movimento si è trasformato anche in concreti atti politici. Nel Vermont l’8 aprile scorso il Comitato democratico dello stato ha votato la richiesta al Congresso di avviare la procedura di impeachment, anche se ha deciso di non chiedere all’assemblea legislativa dello stato di unirsi all’iniziativa, cosa che avrebbe prodotto ben altra risonanza. Tuttavia il mitico stato della sinistra Usa stavolta è arrivato buon ultimo, dopo i comitati democratici del Nuovo Messico, del Nevada, del North Carolina e del Wisconsin e il Consiglio comunale di San Francisco.
Ma l’iniziativa più rilevante resta quella intrapresa alla Camera dei rappresentanti dal deputato democratico John Conyers che il 18 dicembre dello scorso anno, due giorni prima che fossero rivelate le intercettazioni illegali, ha presentato una risoluzione nella quale si chiede la costituzione di una Commissione ristretta «per investigare l’intento dell’Amministrazione ad andare in guerra prima dell’autorizzazione congressuale, la manipolazione dell’intelligence prima della guerra, l’incoraggiamento e la tolleranza della tortura, la ritorsione contro le critiche, e per fare raccomandazioni riguardo alla fondatezza di un possibile impeachment». Il gergo è cauto, come deve essere per un atto parlamentare, ma la sostanza è pesantissima. Lewis H. Lapham, direttore di Harper’s Magazine, ne ha fatto il fondamento di un suo durissimo articolo pubblicato sull numero di marzo dell’autorevole mensile, dalla cui pagine definisce Bush «un criminale» e chiede senza mezzi termini, con una veemenza senza pari nella stampa Usa, che venga incriminato. Conyers, interpellato da Lapham sulla tempistica dell’iniziativa (non era meglio aspettare novembre quando le elezioni di mezzo termine consegneranno probabilmente la maggioranza di almeno una delle due Camere del Congresso ai democratici, consentendo così alla risoluzione di essere approvata?) risponde amaro: «Volevo togliere di mezzo la scusa che noi non sapevamo. Così che fra quattro o dieci anni quando qualcuno mi chiederà “dove eri tu Conyers, dove era il Congresso Usa quando l’amministrazione Bush rendeva inoperante la Costituzione e revocava la licenza al governo parlamentare?” nessuno della compagnia possa dire che non sapeva».
E’ così che l’impronunciabile «I-word» è passata di bocca in bocca ed è entrata nel lessico della battaglia politica di base. Ma la risolutezza delle rivendicazioni rimbalza contro le mura del Campidoglio di Washington e diventa parola soffocata dalla compunzione della realpolitik nei corridoi del Congresso dove Conyers ha portato dalla sua parte solo un piccolo drappello di 33 congressmen. Troppo pochi. Bisognerà dunque aspettare novembre per capire se il Congresso si rende conto che, come scrive Lapham, «è suo compito impedire al Presidente di danneggiare ulteriormente, più di quanto non abbia fatto finora, il popolo, gli interessi, la salute, il benessere, la sicurezza, il buon nome, la reputazione degli Stati uniti – così da cauterizzare la ferita e fermare il flusso di soldi, stupidità, e sangue».