L’ombra del Novecento

Per quanto sia stato breve, il Novecento è finito troppo in fretta. Lasciandoci in eredità un materiale storico incandescente che è diventato serbatoio d’immaginazione, più che base d’elaborazione. Sì che l’ennesimo paradosso d’inizio millennio è che tutti ci riempiamo la bocca delle inedite novità del mondo globale per poi attivare, quando si tratterebbe d’interpretarle, un immaginario politico bloccato al secolo scorso. L’ultima è quella dell’islamo-fascismo, ennesima categoria-spot tirata fuori dal fertile cappello di Bush II e dei suoi intellettuali di riferimento. Non entro nel merito della polemica, gli argomenti pro e contro essendo stati già ampiamente sviscerati nei giorni scorsi, dall’insostenibile leggerezza delle analogie di Paul Berman (fascismo e fondamentalismo islamico accomunati dalla mitologia di un passato grandioso e dal culto della morte) alle fondate distinzioni di Gilles Kepel (il fascismo è stato un movimento di massa europeo, il terrorismo islamico è il contrario di un movimento di massa), alla circostanziata ricostruzione di Sergio Romano («Bush sembra dimenticare che nella lunga guerra fra l’Iraq di Saddam Hussein e l’Iran di Khomeini gli Usa furono dalla parte dei fascisti contro gli islamismi»), alle confutazioni di Parlato sul manifesto e di Sansonetti su Liberazione.
Osservo solo en passant che è sempre dalla parte degli intellettuali della sinistra liberal-moderata alla Berman, dopo il Novecento alla perenne ricerca dell’identità perduta, che arrivano le onde confusionali più alte (si veda, oltre al pluricitato «Terrore e liberalismo», l’altro suo libro sul ’68 e i suoi esiti ideologici e politici). Meglio un (ex) neoconservatore come Fukuyama, che in America al bivio riconsidera autocriticamente, visti gli alibi che hanno fornito e i guai che hanno procurato, le sue tesi del dopo-89 sulla «fine della storia», consiglia l’amministrazione Bush di farla finita con la guerra preventiva e la democrazia imposta a suon di bombe, prende le distanze dai neocons ricostruendone la storia proprio a partire dalle loro interpretazioni degli snodi cruciali del secondo ‘900, dalla guerra fredda al Vietnam, alla caduta del Muro di Berlino.
E qui torniamo all’immaginario politico (americano) inchiodato al ‘900 e compulsato come Google: primo tentativo, identificazione dell’Islam come Grande Nemico sostitutivo del Comunismo sconfitto nel 1989; secondo tentativo, identificazione dell’Islam come Grande Nemico sostitutivo del Fascismo sconfitto nel 1945. Anche negli spot politici la dimensione orizzontale, veloce e atemporale della rete vince su quella (novecentesca) della paziente storicizzazione e contestualizzazione degli eventi.
Come meravigliarsi del resto di queste leggerezze transoceaniche? Una apre il Corriere della Sera e ci trova gli anatemi di Panebianco contro lo stato di diritto e quelli che ci credono, rei di nutrire qualche dubbio sull’opportunità di usare la tortura nella guerra al terrorismo e più in generale di prescindere, corrotti dalla fortuna di essersi formati nella lunga pace post-’45, dal «compromesso fra stato di diritto e sicurezza nazionale» su cui le democrazie si baserebbero. In verità a noi corrotti pareva di sapere che lo stato di diritto post-’45 si basa sul presupposto della pace (anzi: sul tabù della guerra) e che se crolla quel presupposto crolla fatalmente e disgraziatamente anche lo stato di diritto nonché la democrazia (come puntualmente sta accadendo); forse avevamo capito male.
Non sapremmo invece come definire e punire, né in base agli standard ideologici di Berman né in base a quelli giuridici di Panebianco, l’assassinio di Hina Saleem, la ragazza pakistana sgozzata e sepolta sotto i pomodori dagli uomini musulmani della sua famiglia gelosi del suo fidanzato italiano e «infedele». Non scomoderemo il fascismo e non invocheremo la tortura: storia di ordinaria brutalità patriarcale (il cui orrore specifico non faccia dimenticare la recente sequenza di donne italiane morte ammazzate da uomini italiani nella provincia italiana). Però una cosa ci viene da dire, questa: sotto i fuochi d’artificio dei grandi spot politici d’inizio 2000 che hanno preso il posto delle grandi narrazioni del ‘900, la gente comune, donne e uomini, di religioni, etnie e latitudini diverse si integra e si disintegra così sotto i nostri occhi nella porta accanto. Prima distogliamo l’ascolto dai grandi spot e lo dirottiamo sulle narrazioni della vita quotidiana, meglio sarà per i destini del mondo globale e per la comprensione delle linee di conflitto, micro e macro, che lo attraversano e lo tormentano.