A chi se non a Eric Hobsbawm, il grande storico del secolo breve, la «London Review of Books» poteva chiedere di ricordare il ’56 ungherese? Lo studioso non si è tirato indietro e ha scritto un lungo articolo che comincia così: «La storia contemporanea è inutile a meno che non consenta alle emozioni di essere rievocate in piena tranquillità». Parole da tenere a mente quando episodi e vicende del passato prossimo vengono dissezionati non per essere meglio compresi, ma per gettare ombre più o meno sinistre sul nostro presente. Proprio della rivolta ungherese, dunque, è arrivato il momento di parlare con la tranquillità auspicata da Hobsbawm, aiutati, fra l’altro, dall’uscita nel mondo anglosassone di diversi saggi di notevole valore, e in particolare di Failed Illusions: Moscow, Washington, Budapest and the 1956 Hungarian Revolt, di Charles Gati, un testo eccezionale («outstanding») secondo Hobsbawm, che cita le quattro principali conclusioni cui Gati, uscito dall’Ungheria proprio in seguito al ’56 e oggi docente alla Johns Hopkins University, è giunto dopo ricerche accurate: «Sono stati relativamente pochi gli ungheresi che hanno effettivamente combattuto contro il dominio sovietico, e il loro scopo era di riformare il sistema, non di abolirlo; … alla rivoluzione è mancata una leadership efficace; … i capi sovietici a Mosca sono stati tutt’altro che felici di intervenire»; e, infine, «gli Stati Uniti si sono rivelati al tempo stesso male informati e disinformati circa le prospettive di cambiamento, nonostante la propaganda americana sia stata assai provocatoria». Commenta ancora Hobsbawm nel suo articolo: «Come potremmo oggi capire ‘il curioso stato mentale’ dei comunisti sotto il terrore di Stalin, uno stato – per usare le parole di Gati – che ‘combinava angoscia permanente e sconfinato idealismo’?». Le strade della storia sono a volte imperscrutabili, come quelle della provvidenza: non a caso lo studioso britannico conclude le sue considerazioni ricordando che a scegliere Gorbaciov come suo erede (e dunque indirettamente a determinare la fine dell’Urss) fu Jurij Andropov che, «ambasciatore sovietico a Budapest, era stato il più fervido sostenitore dell’intervento».
Nella selva di anniversari che punteggiano l’anno letterario, non sono stati in molti, per lo meno in Italia, a ricordare che proprio nel 2006, in ottobre, cadeva il centenario della nascita di R K Narayan, scrittore indiano celeberrimo nel suo paese e in tutto il mondo anglosassone, ma noto anche da noi grazie all’attenzione che negli ultimi anni gli hanno tributato Guanda e Marcos y Marcos, pubblicando diversi romanzi della grande saga che ruota intorno alla cittadina immaginaria di Malgudi, nell’India meridionale. Ne parla sul Guardian Monica Ali, esordiente di successo nel 2003 con Brick Lane (in italiano Sette mari tredici fiumi, Marco Tropea), e ora maltrattata dalla critica per la sua seconda prova, Alentejo Blu. Nata a Dacca, in Bangladesh, da padre bengalese e da madre inglese, Ali è cresciuta in Gran Bretagna ed è stato proprio in una città manifatturiera dell’Inghilterra settentrionale che si è accostata all’opera di Narayan: «Fra i racconti di mio padre sulla vita di villaggio e quello che leggevo sulla magica città di Malgudi, avevo la sensazione di conoscere l’India quanto l’Inghilterra», ricorda la scrittrice, sottolineando le forti capacità evocative di Narayan: «A ogni successiva visita a Malgudi, si è sempre più coinvolti, felici di imbattersi in un personaggio familiare, sentendosi – proprio come Raman, l’eroe del Pittore di insegne – ‘saldamente radicati in questa contrada’». Del resto, era stato lo stesso Narayan, nel suo saggio A Story-Teller’s World, a riassumere, a proposito della tradizione orale del Ramayana e di altre epopee, il fascino della narrazione: «Questi racconti hanno una tale vitalità che le persone amano ascoltarli e riascoltarli, senza che a nessuno, per lo meno in India, venga in mente di dire ‘Basta, questa la conosco!’. Si ascoltano, e si leggono, e ci si riflette, più e più volte: e in questo modo suscitano nell’ascoltatore una comprensione sempre più forte della vita, della morte, del destino». Proprio quello che accade, commenta Ali, leggendo i romanzi di Narayan.