Lo Yuan e la grande partita cinese

Perché la Cina ha deciso di abbandonare la parità fissa dello yuan col dollaro?
Prima di tutto guardiamo la sostanza. Si è trattato di una rivalutazione modesta: il 2%. Poca cosa, visto che gli esperti occidentali ritengono che la sopravvalutazione dello yuan rispetto al dollaro fosse del 40% circa. Gli Usa infatti – ma, come vedremo tra poco, non si sa con quanta lungimiranza – chiedevano un 15%.
I dirigenti cinesi avevano risposto, molto seccamente, che avrebbero deciso loro, non sulla base di pressioni esterne, ma tenendo conto, in primo luogo, “dell’interesse nazionale cinese” e con una tempistica adeguata alle esigenze cinesi. Così hanno fatto.

Ma questa apparentemente piccola decisione implica un contesto . Ed è questo contesto a chiarire molte cose. Il punto è che la Cina ha avviato, sua sponte , cioè sulla base di un calcolo strategico molto preciso, una nuova fase della grande partita che già la contrappone agli Stati Uniti.

Non cedimento rispetto a pressioni americane, ma mossa autonoma. Non operazione strettamente economico-finanziaria, ma eminentemente politico-strategica.

Con un versante interno, e uno esterno.

I dirigenti cinesi si erano già posti, l’anno scorso, il problema di come frenare la loro stessa crescita. Il premier Wen Jabao aveva parlato davanti al Congresso della necessità di ridurre il tasso di aumento annuale del Pil dal 9,1% al 7%. Altrimenti – aveva detto in sostanza – rischiamo una crisi economica, sociale, ecologica. Una decisione gigantesca, difficilmente realizzabile senza misure drastiche. Una di queste è la rivalutazione dello yuan, che in qualche modo frenerà la crescita. Ma di poco, perché i dirigenti di Pechino sanno di non poter contenere gli effetti di una frenata troppo brusca. Del resto, come dargli torto? Chi potrebbe? Gli Stati Uniti, che sono in posizione del tutto diversa, hanno assai meno coraggio e non vogliono rischiare nemmeno gli spiccioli, come la mancata firma di Kyoto dimostra.

La rivalutazione, che sarà graduale, e progressiva, avverrà dunque nei tempi cinesi e solo in quelli.

Ma l’effetto esterno sarà sicuramente più grande. Uno yuan più forte (ma per il quale tutti i pronostici indicano una crescita ulteriore) farà affluire sulle banche cinesi un’ enorme massa di capitali dall’estero. Pioverà sul bagnato perché la Cina non ha affatto bisogno di capitali, essendo al momento attuale la più colossale sorgente di esportazione degli stessi. La Cina sta comprando tutto il comprabile in tutti i continenti. Anche il “non comprabile”, visto che la sua offerta astronomica per prendersi la Unocal è ancora sul tavolo di Bush, che non sa che pesci pigliare: accettare lo scorno della Cina, che si compra l’impresa petrolifera che organizzò l’ascesa dei taliban in Afghanistan, e che di fatto gestisce il gas dell’Asia Centrale, oppure negare l’accesso ai cinesi a quella risorsa, salvando l’onore nazionale, ma aggravando i rapporti con Pechino.

In ogni caso Pechino accrescerà la sua forza finanziaria sui mercati internazionali e, in particolare, aumentarà la sua influenza sui conti esteri statunitensi, e, più precisamente sui conti pubblici americani. Si sa, infatti che la Cina ha già acquistato, in questi anni, grandi quantità di buoni del Tesoro Usa. Cioè ha comprato circa l’8% del debito americano. Chiunque capisce che, se Pechino continua su questa strada, Washington ne sarà da un lato felice (perché altrimenti rischia la bancarotta) ma dall’altro lato accrescerà tremendamente la sua vulnerabilità.

Che succederebbe infatti se, per esempio in caso di una improvvisa crisi politica, la Cina smettesse di comprare i buoni del Tesoro americani? Che succederebbe se addirittura, per esempio, la Cina cominciasse a vendere sul mercato internazionale una parte del debito pubblico americano?

Si tratta di scenari che fanno venire i brividi. Ma che sono stati esaminati con la massima attenzione a Pechino.

Dovrebbe essere ormai chiaro che là non ci sono dilettanti, né ingenui. E’ evidente che ogni mossa di questo tipo è ad alto rischio, suscettibile di innescare reazioni a catena. Uno yuan che, in conseguenza di eccessivi afflussi di capitali, diventasse troppo forte (ecco perché la richiesta americana è piuttosto insensata) potrebbe costringere gli Stati Uniti (affamati di capitali che non arrivano) ad aumentare i tassi di cambio del dollaro. Ancor peggio sarebbe se Pechino smettesse di investire i propri in America. Gli effetti sulla bolla immobiliare americana sarebbero dirompenti.

E’ dunque in questo contesto che a Pechino si legge la notizia della pubblicazione del rapporto della Cia sulle spese militari cinesi, oppure si misura il probabile diniego per l’acquisto della Unocal, oppure il via libera nucleare concesso da Washington all’India nel corso della visita di Manmohan Singh, oppure l’impegno militare americano per Taiwan, oppure la retorica anticinese di una parte assai ampia del Congresso statunitense.

Tutti segnali infausti, che consigliano alla Cina di predisporre contromosse sempre più potenti. La rivalutazione dello yuan si somma così all’attivismo di Pechino sull’Asia Centrale, e la richiesta dell’intesa asiatica, cui Mosca prende parte, per il ritiro delle basi americane dall’area. Mosse “lunghe”, cui parecchi governi asiatici cominciano a essere sensibili. Il dittatore uzbeko Karimov, per esempio, ha preso la palla al balzo per cercarsi un nuovo protettore, dopo le critiche di Washington, e ha intimato agli americani di andarsene. Segnale vigoroso non della forza di Tashkent, ma di quella di Pechino.

Anche le mosse, solo apparentemente sconclusionate, del padrone di Pyong Yang, hanno un sapore cinese. Washington rischia, se tira troppo la corda con Hu Jintao, di trovarsi di fronte una Corea che si riunifica sotto la benedizione di Pechino, per poi chiedere gentilmente alle truppe americane di lasciare il paese.

Grande partita, dunque. Hu Jintao sa che la contesa con Washington è destinata a crescere, forse molto velocemente. E si prepara. Verrà il momento in cui si dovrà decidere chi avrà accesso alle risorse. Gli Stati Uniti lavorano a tutto ritmo per giungere a quel momento – tra dieci, massimo quindici anni – con le chiavi in mano. Pechino si attrezza per costringere Washington, con le buone, o con le cattive, a far entrare la Cina in quei depositi. Purtroppo non ce ne sarà abbastanza per tutti.

E’ per questo motivo che i rispettivi armamenti strategici stanno crescendo a tutto spiano. Restano sullo sfondo, per il momento. Ma crescono.