Lo Stato non è libero di punire chi non fa del male

La manifestazione di ieri ha rimesso al centro il problema dei consumatori e ha evidenziato i clamorosi difetti strutturali nel modo di vedere il fenomeno.
Per decenni si è parlato di tossicodipendenze. Anche quelli che sono nati come servizi per i consumatori, sono stati chiamati centri per tossicodipendenti. Dunque, il primo drammatico limite è quello di confondere un fenomeno gigantesco, come l’uso di sostanze, con le dipendenze. Questo è uno dei motivi per cui esistono persone, rispettabilissime e con una loro cultura, che parlano di «consumo zero».
Non pensano nemmeno di concettualizzare il consumo zero quanto parlano di alcool: perché lo conoscono da vicino e/o lo conoscono personalmente. Dunque, ne parlano a ragion veduta, e sanno che è possibile apprezzare un buon vino o lo champagne senza diventare alcolisti o massacrarsi il fegato, cosa che per altro capita a un milione di loro concittadini (30mila morti all’anno). Il secondo limite è la drammatica, cronica, incapacità di riconoscere nell’uso (non solo medico) di sostanze, un enorme fatto storico e culturale che non ha nulla a che fare con quella che tanti hanno chiamato «cultura dello sballo». Millenni studiati da antropologi e storici (da ultimo, per l’Italia, Elemire Zolla, in due libri straordinari, Fuori dal mondo e Il Dio dell’ebbrezza parlano d’altro. Nessuno studioso serio del jazz può evitare di ricordare lo strettissimo nesso di questa espressione musicale nella cultura afroamericana con la marijuana («Maria Juana»).Così Louis Armstrong, agli albori della proibizione, fu arrestato per cannabis. Ma non era cultura dello sballo: anzi, un tipo di apertura sensoriale (che dura anche dopo, anche quando uno non fuma più) che ha bisogno anche di una cristallina lucidità come dimostrano i capolavori di Miles Davis. E, se un po’ di «fumo» c’è nei lavori «pop» dei Beatles, qualcosa di diverso, di più «altro» c’è in Day in the life e Lucy in the sky with diamonds. Sono passati esattamente quarant’anni da quell’album (Sergent Pepper’s Lonely Band), contemporaneo ai Doors (il loro nome deriva da «Doors of perception il grande classico di Aldous Huxley sulle porte della percezione «aperte» dalle sostanze psichedeliche), ai Grateful Dead ai Jefferson Airplane (White Rabbit), in una lunga linea che arriva fino agli anni novanta con Nirvana e Pearl Jam. E ancora meno studiata è la cultura «rave».
Il terzo limite (che in parte è una conseguenza dei primi due) è la formidabile assenza della cultura, della politica e del diritto. Delegando ai tecnici (medici, etc) il quadro di riferimento, è evidente che non si coglie il punto centrale: e cioè che l’uso di sostanze è una straordinaria, primaria, questione politica, in cui si misura la civiltà di uno stato. Se ci fa specie il fatto che in Oman si mette in prigione chi viene colto a bere un sorso di alcool, ci siamo invece assuefatti al fatto che i consumatori di marijuana si possono fermare per strada, perquisire, irrompere nelle loro case e poi sanzionarli con misure sovietiche, denunciarli, processarli, sospenderli dalle lezioni (è successo a Cesena). Le sanzioni sono anticostituzionali e sono simili alle leggi razziali e contro le religioni e contro gli stili di vita: omosessuali in Inghilterra fino agli anni sessanta, cattolici in Cina e in molti altri paesi ora, e così via. Le formidabili campagne di tolleranza zero degli anni ottanta (da Reagan a Muccioli-Vassalli-Jervolino fino a Fini) hanno messo sulla difensiva: «Non ci deve essere la libertà di drogarsi». Ma il discorso va capovolto: è lo stato che non può avere la libertà di violentare la privacy dei cittadini, sanzionando comportamenti privati che non danneggiano terzi. Rispettando rigorosamente questi limiti, lo stato poi può fare moltissimo per prevenire, aiutare i cittadini in difficoltà.