Lo stato di diritto messo in soffitta…

Mancano solo otto giorni al referendum sullo scempio della Costituzione repubblicana e il centrosinistra sembra non aver ancora iniziato la campagna elettorale per il No. Frattanto la televisione – quella pubblica, e non solo quella di Berlusconi – illustra i contenuti del referendum spiegando che si andrà a votare semplicemente sulla diminuzione del numero dei parlamentari e su una più razionale e per tutti vantaggiosa differenziazione di competenze tra camera e senato e tra stato e regioni. Torniamo allora a raccontare l’incubo che ossessiona e tormenta quanti conoscono – un’infima minoranza dell’elettorato – ciò su cui andremo a votare: la possibilità, niente affatto inverosimile visti i sondaggi e la totale disinformazione, che prevalgano i Si a questa manomissione della nostra democrazia.
Avremmo, se vincessero i Si, 20 sistemi sanitari, 20 sistemi scolastici e 20 sistemi di polizia diversi, con i relativi apparati burocratici e, soprattutto, con la lesione dell’uguaglianza dei cittadini nei diritti alla salute, all’istruzione e alla sicurezza, in danno di quanti abitano nelle regioni più povere.
Avremmo un’ulteriore personalizzazione e verticalizzazione del sistema politico all’insegna di una sua degenerazione antiparlamentare e antirappresentativa. Tutti i poteri politici sarebbero di fatto concentrati nella figura autocratica di un «primo ministro» reso di fatto inamovibile e irresponsabile. Ne risulterebbe infatti capovolto il rapporto di fiducia tra parlamento e governo: non sarebbe più il governo che dovrebbe avere la fiducia del parlamento, bensì il parlamento che dovrebbe avere la fiducia del primo ministro, il quale potrebbe sempre sciogliere la camera sotto la sua «esclusiva responsabilità».
Sarebbe d’altro canto praticamente impossibile la sfiducia, dato che essa comporterebbe, oltre alle dimissioni del primo ministro, lo scioglimento della camera e nuove elezioni; a meno che essa non fosse accompagnata dalla designazione di un nuovo primo ministro, che però dovrebbe essere votata dagli stessi «deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della camera». Sarebbero perciò impossibili le crisi di governo parlamentari. Solo la maggioranza, quasi all’unanimità, potrebbe sfiduciare il primo ministro. Maggioranza e minoranza verrebbero blindate, in un parlamento ridotto a una specie di società per azioni controllata, con un decimo o anche meno dei deputati, dal capo della coalizione vincente. Sarebbe così alterato lo statuto del parlamentare, vincolato al primo ministro da un mandato imperativo dall’alto, in contrasto con il principio basilare della democrazia politica, stabilito dall’art.67 della Costituzione, che «ogni membro del parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato».
La separazione tra potere esecutivo e potere legislativo sarebbe d’altro canto dissolta anche sul piano funzionale dal sabotaggio, oltre che dei poteri di controllo, anche delle classiche funzioni legislative del parlamento. Avremmo infatti ben quattro tipi di fonti che darebbero luogo ad altrettanti conflitti: 1) leggi di competenza della camera su ben 22 materie, con parere non vincolante del senato; 2) leggi di competenza del senato con parere non vincolante della camera in tema di sanità, organizzazione della scuola, programmi scolastici, polizia amministrativa e in ogni altra materia non di competenza della camera; 3) leggi di competenza congiunta di entrambe le camere su un’altra serie interminabile di materie; 4) leggi di competenza del senato cui il governo, su autorizzazione del presidente della Repubblica chiamato a «verificar(n)e i presupposti costituzionali», potrebbe proporre modifiche «essenziali per l’attuazione del suo programma» che, se non approvate, sarebbero decise dalla camera a maggioranza assoluta.
E’ facile immaginare il caos istituzionale che proverrebbe da questo labirinto di competenze e dagli infiniti contenziosi generati dall’inevitabile incertezza dei confini tra le innumerevoli materie distribuite tra queste quattro fonti. Si sono addirittura previsti due nuovi organi – una commissione paritetica di 60 membri e un comitato di 8 membri designato dai due presidenti – per risolvere l’uno il disaccordo tra camera e senato sulle leggi bicamerali e l’altro i conflitti di competenza tra le quattro fonti. A questi conflitti si aggiungerebbero d’altro canto i conflitti tra conflitti: tra quelli intra-parlamentari affidati al comitato degli 8 e quelli sulle stesse materie tra stato e regioni, rimasti di competenza della corte costituzionale.
Ne risulterebbe – tra un parlamento articolato di fatto in quattro camere (camera, senato, commissione dei 60 e comitato degli 8) e le 20 regioni – una conflittualità intraistituzionale permanente; la possibilità di ostruzionismi illimitati; la paralisi della funzione legislativa del parlamento in favore della decretazione governativa d’urgenza; una valanga di questioni procedurali sui due presidenti (e sul loro comitato) e sulla corte costituzionale; lo squilibrio in senso autoritario dell’intero assetto istituzionale; il crollo della certezza del diritto, il declino della legge e l’indebolimento della funzione garantista della giurisdizione, la cui «soggezione alla legge» risulterebbe sostituita dalla soggezione ai decreti legge del governo. Una frana, insomma, dell’intero edificio dello stato di diritto e della democrazia rappresentativa.
Siamo quindi di fronte non già a una semplice «revisione» della Costituzione, ma a una Costituzione nuova, che modifica simultaneamente la forma di stato, da nazionale a federale, e la forma di governo, da parlamentare a monocratica, e decostituzionalizza di fatto la Repubblica. E’ infatti l’intera Costituzione, e non solo la sua seconda parte, che ne risulta stravolta: per la disuguaglianza nei diritti sociali provocata dalla cosiddetta devolution; per il nesso funzionale che lega la seconda parte della Carta alla prima; perché infine la crisi della legge, che è la fonte primaria di attuazione della Costituzione, non potrebbe non risolversi in un indebolimento di tutti i diritti fondamentali da questa stabiliti.
Di qui la radicale illegittimità di tutta questa operazione. Il potere di revisione non è infatti un potere costituente, ma un potere costituito, che in quanto tale può produrre singoli emendamenti e non una costituzione del tutto diversa, se non in violazione della sovranità popolare sancita dal primo articolo della Carta del ’48.
E’ difficile capire se i dirigenti dell’Unione si rendano conto della portata dello sfascio prospettato da una vittoria del Si. Non sembra, a giudicare dalla loro inerzia e dalle loro proposte di tornare, dopo il referendum, a trattare con l’opposizione non si sa bene su quali di tutte queste trovate. Due cose almeno dovrebbero allora essere chiare anche ai nostri rappresentanti: che un’eventuale vittoria del Si ben difficilmente indurrebbe la destra a rimettere in questione la sua riforma; e che la vittoria del No è essenziale anche per quanti hanno a cuore, se non il futuro della democrazia, la sopravvivenza dell’attuale governo, che dall’entrata in vigore della costituzione di Berlusconi, Fini, Bossi e Calderoli risulterebbe pesantemente delegittimato.