critica su alcuni recenti scritti di Michael Hardt e Toni Negri dedicati alla politica «imperiale» di George W. Bush.
«Golpe nell’impero», titola il primo numero (aprile 2003) di Global magazine, il neonato mensile vicino all’ala «disobbediente» del «movimento dei movimenti». La scelta redazionale è azzeccata, visto che il convincimento che fa da sfondo alla maggior parte dei brevi scritti analitici che vi sono contenuti è che, in questi primi mesi dell’anno, sia accaduto qualcosa di latamente accostabile ad un colpo di stato. Ma è anche ambigua: di per sé, «golpe nell’impero» indica un evento (il «golpe») e il luogo in cui esso si sarebbe verificato (l’«Impero»), ma nulla ancora dice della natura del primo (vale a dire, se debba ritenersi frutto di spinte «reazionarie» o «progressive») e della sorte del secondo (vale a dire, se ne risulti «compromesso» o «rafforzato»). Se non m’inganno, un’opzione abbastanza netta per la seconda coppia opposizionale emerge dall’intervento di Michael Hardt, il cui titolo (Il diciotto Brumaio di George W. Bush) è chiaramente ispirato ad uno dei più celebri golpe della storia francese (e mondiale), quello con cui, il 2 dicembre 1851, Luigi Napoleone Bonaparte s’impossessò del potere.
Il ragionamento di Hardt è volto – lo si capisce fin dalle prime battute – a difendere la complessa interpretazione del nuovo ordine globale avanzata insieme a Toni Negri nell’arcinoto Empire e, in particolare, la loro tesi più innovativa, secondo la quale, unificatosi lo spazio globale sotto il comando del capitale, nessuno Stato poteva ormai dirsi portatore di un progetto imperialista, volto cioè a ricercare all’«estero» le condizioni per l’accumulazione capitalistica (si identificassero in un’adeguata domanda effettiva e/o nella disponibilità di forze produttive «naturali» a basso costo), talché la stessa sovranità «monarchica» degli Stati Uniti, essendo inserita in un più vasto reticolo di poteri (includente non solo gli altri Stati-nazione, quanto meno i più «forti» di essi, ma anche le grandi corporations transnazionali), non poteva ritenersi in contraddizione col dispiegarsi di un multilateralismo «aristocratico» nella gestione del potere globale. «Per alcuni aspetti – concede, infatti, Hardt – la guerra in Iraq e l’attuale missione globale del governo Usa sembrano ripetere il vecchio progetto imperialista europeo», sia nei toni (evocativi di una nuova «missione civilizzatrice» dell’Occidente) che nella sostanza («gli sforzi di controllare gli enormi giacimenti petroliferi iracheni e del Medioriente sicuramente richiamano molte guerre imperialiste»).
Ma, nonostante le somiglianze, egli dice, «i vecchi imperialismi non ci aiutano a capire cosa è centrale nella situazione attuale»: anzi, benché «apparentemente calzanti», esempi di tal genere «nascondono quello che sta realmente accadendo», vale a dire «il coup d’etat all’interno del sistema globale – un nuovo diciotto Brumaio».
Cosa intenda per «colpo di stato» Hardt lo spiega subito dopo: si tratta dell’«usurpazione del potere all’interno del palazzo da parte dell’elemento unilaterale monarchico e [del]la corrispondente subordinazione da parte delle forze aristocratiche e multilaterali». In sostanza, nella guida dell’Impero il governo monarchico sarebbe subentrato a quello dell’aristocrazia, di guisa che gli Stati-nazione europei (Francia e Germania in primis) si troverebbero, adesso, «nella posizione dei partiti borghesi nel parlamento francese del XIX secolo, a insistere sul multilateralismo contro l’unilateralismo dell’Imperatore». Messa in questi termini, è evidente che saremmo di fronte ad uno scontro volto a stabilire «la gerarchia del secondo Impero», non certo di una battuta d’arresto nella sua edificazione; detto altrimenti, si profilerebbe un «secondo nuovo ordine mondiale», non già un regresso verso il disordine della conflittualità inter-imperialistica degli albori del secolo breve.
Benché suggestiva, la tesi non mi persuade affatto e proprio alla luce del «precedente» richiamato per supportarla. Per ciò che ho capito io del Diciotto brumaio (che, ricordo, non è solo la data del golpe di Luigi Bonaparte secondo il calendario rivoluzionario, ma anche il titolo del più straordinario degli scritti storici di Marx, espressamente dedicato alla sua analisi), il colpo di stato bonapartista matura a causa dell’incapacità della borghesia francese di gestire la contraddizione irriducibile posta dalla costituzione del 1848 fra il potere legislativo e quello esecutivo, ma non presuppone affatto alcun «contrasto» fra l’«elemento monarchico» e quello «aristocratico»: non solo Bonaparte edifica il proprio dominio nell’interesse della classe borghese, la sua missione anzi essendo proprio quella mantenere intatto il potere sociale di quest’ultima, ma per di più il suo colpo di stato, lungi dal cogliere la borghesia francese impreparata, ne riceve preventivamente l’appoggio. E nessuna delle due cose certamente si può dire a proposito degli attuali rapporti fra gli Stati Uniti e i loro (ex?) alleati europei: se ne accorge lo stesso Hardt, che ad un certo punto del suo discorso deve ammettere che «una Europa unita, le Nazioni Unite e altri poteri multilaterali minacciano di porsi come una alternativa effettiva agli Stati Uniti e di mettere in dubbio la loro superiorità globale»; provate a scrivere che, nella Francia del 1851, i partiti borghesi «minacciavano di porsi come un’alternativa effettiva» a Bonaparte e capirete che si tratta di un’affermazione senza senso.
Insomma, richiamare il Diciotto brumaio per spiegare quanto sta accadendo può andar bene come espediente letterario, non certo come ipotesi analitica. Se proprio voleva cercare un precedente nella storia francese del XIX secolo, Hardt lo avrebbe potuto più convenientemente ritrovare nell’esperienza della monarchia orleanista di Luigi Filippo, che – secondo la ricostruzione fatta da Marx ne Le lotte di classe in Francia – vide il dominio non della borghesia francese nel suo complesso, ma di una sua frazione, quella costituita dall’aristocrazia finanziaria. Ma ciò avrebbe implicato la necessità di negare il presupposto analitico al quale egli non è disposto a rinunciare, vale a dire che il capitale sia unificato e che sotto il suo dominio anche il mondo ormai lo sia: ammettere che c’è una frazione del capitale che cerca di prevalere sulle altre avrebbe infatti messo capo alla necessità di riconoscere che ciascuna di queste frazioni è dotata di un proprio «comitato d’affari» e, per questa via, tutta la problematica dell’imperialismo, che Hardt cerca di scacciare dalla porta, sarebbe rientrata dalla finestra.
E che sia rientrata lo scrive a chiare lettere proprio Toni Negri, schierandosi così per la prima delle coppie opposizionali di cui si diceva in apertura. «L’unilateralismo americano – si legge in uno dei suoi due articoli pubblicati su Global – va sconfitto in quanto tale, in quanto maleodorante e pericolosa riproduzione dell’imperialismo Ancien Régime, in quanto colpo di forza di una classe dirigente corrotta e, essa sì, invecchiata»; né il «multilateralismo imperiale» può essere confuso con l’«unilateralismo imperialista»: al contrario, bisogna ammettere che «il colpo di stato di George W. Bush» non va in direzione di un consolidamento dell’Impero e che un rilancio di quest’ultimo passa per un’alleanza (tattica) fra le «moltitudini» e alcune delle «aristocrazie globali (la tedesca e la francese, ad esempio, ma anche probabilmente la russa e la cinese)».
Il recensore malevolo potrebbe fermarsi qui e magari suggerire che, se basta il primo conservatore di passaggio alla White House per mettere in crisi un modello la cui compiuta esposizione ha richiesto quasi cinquecento pagine di ottima carta, è segno che, nel modello, qualcosa – e qualcosa di grosso – non funziona. Quello pettegolo potrebbe interrogarsi sull’effettiva consistenza di un sodalizio intellettuale che basta quel conservatore di cui si diceva a mandare in pezzi. Ma chi scrive non è e non vuol essere né l’uno né l’altro e, in un precedente articolo (Il gendarme del libero mercato, 20 aprile), ha già dato atto a Negri e Hardt di aver compreso che la possibilità di leggere la bruta materialità dei fatti recenti con l’occhio teorico del modello imperiale non era data nel loro opus maximum e occorreva uno sforzo argomentativo ulteriore.
Tuttavia, di fronte a quelle che gli epistemologi definirebbero senz’altro «ipotesi ad hoc», vien fatto di pensare che il problema fondamentale di Empire sia quello di aver troppo sbrigativamente dichiarato la morte dello Stato. Sovviene al riguardo una vecchia (ma non invecchiata) raccomandazione di Massimo Severo Giannini, insigne maestro di generazioni di giuristi: «quella “crisi dello Stato” di cui tanti politologi parlano così malamente, quasi che si prospettasse una fine della figura “Stato” o un superamento della realtà Stato con figure diverse», è dovuta al fatto che le amministrazioni statali «hanno perduto attribuzioni o sono state dequotate quanto a valori rappresentativi»; ciò concesso, esse conservano ancora, se non primazia, certamente «centralità di affluenze», e «seppure si costituiranno organizzazioni superstatali più compatte e salde, è difficilmente prospettabile che gli Stati possano scomparire, poiché ormai le accumulazioni della storia li hanno resi enti esponenziali di collettività individue». È evidente – concludeva Giannini – che su queste tematiche «i futurologi trovano abbondanti pascoli». Ma è parimenti evidente che l’inserimento delle amministrazioni statali in reticoli sovrastatuali più o meno estesi e vincolanti non ha niente a che vedere con la «fine dello Stato» di cui si straparla: «l’eliminazione degli Stati, almeno per un lungo periodo, è improbabile». Che avesse ragione?