Grande è il silenzio sul documento dell’amministrazione di Bush al Congresso, «The national security strategy of the United States of America». Lo hanno rilevato soltanto Luigi Pintor e Pietro Ingrao sulle nostre colonne. Esso è in senso stretto eversivo dell’epoca seguita alla seconda guerra mondiale, che faceva delle Nazioni unite e della loro Carta il solo luogo di decisione e fonte di legittimazione delle relazioni fra gli stati. Non solo cancella l’interdizione di ogni guerra che non sia di difesa, ma anche il principio, che pareva ovvio dopo la carneficina, che le nazioni avrebbero concertato assieme gli obiettivi planetari e le regole dei conflitti che in essi sorgono. Le potenze vincitrici del 1945 se ne assicuravano il supercontrollo nel Consiglio di sicurezza – e qui avvennero i maggiori scontri -ma mantenevano come fine un mondo, se non pacificato, comunemente regolato. Con il documento di due settimane fa, gli Stati uiti negano sostanza e metodo: sono loro a decidere i fini universalmente validi, individuano i pericoli e procederanno con ogni mezzo a imporli. Meglio, ma non necessario, se altri li seguirà. L’Onu non è consultata: ne è informata. Vale la pena di leggere questo statement, che consta d’una lettera-prefazione a firma George W. Bush e d’un programma per punti; ben scritto, niente affatto burocratico, è opera del brain trust di Condoleeza Rice. Scopo dell’umanità sono «la libertà politica, la democrazia e la libertà d’impresa», «imprescindibili per tutti i paesi e in qualsiasi momento», «unico modello accettabile», uscito vittorioso dalla «terribile minaccia di distruzione che faceva pesare (sugli Stati uniti) l’Unione sovietica».
Oggi esso è minacciato non da una nazione, non essendocene più «in grado di accedere ai mezzi di distruzione totale» («ineguagliabile» è la potenza militare degli Usa), ma dal fatale «incrocio fra radicalismo e tecnologia». Grazie alla quale il «radicalismo», che non ha più rappresentanza politica né eserciti, opera per attentati, tentativi di destabilizzazione e ricatto attraverso il terrore. Non è un pericolo pari a quello rappresentato dall’Urss, ammette lo staff di Bush, non essendo in suo potere una «distruzione totale», ma può far sanguinare le democrazie. Come l’11 settembre. Della «urgenza e complessità» del pericolo sono coscienti solo gli Stati uniti, la cui Costituzione s’è dimostrata nel secolo appena finito la sola a buona tenuta, e sono determinati a impedire che la minaccia si coaguli e cresca.
La colpiranno nei suoi nidi (di qui la guerra preventiva) e disinfesteranno ab ovo gli stati che sono terreno d’infezione (quelli canaglia). E’ una guerra senza limiti territoriali né di tempo: il nemico è oscuro e pervasivo come il Male, anzi è il Male. «Non è più tempo di trattare un ideale sul registro simbolico senza far nulla di concreto per raggiungerlo», sarebbe come proporre a San Giorgio di discutere con il drago. Gli Stati Uniti agiranno e se gli altri stati non li seguiranno «la storia non sarà clemente con loro». Quanto alle Nazioni unite, Bush le ha avvertite, o seguono o «saranno inutili». Forse perché dovrebbe dichiararlo inaccettabile, l’Onu ha finto di non sentire. Eppure per la prima volta dal 1945 la maggior potenza del mondo dichiara in sede formale che il suo modello di società è l’unico, che ogni opposizione ad esso è, dati i rapporti di forza, potenzialmente terrorista, che non c’è ipotesi politica legittimata se non quella vincente dopo il 1989. La sua universalità avrebbe prodotto l’universalità d’un nemico, tale e quale l’antica lotta fra Bene e Male. Non ci sono più che l’occidente da una parte e il terrorismo dall’altra, oggi sottospecie del «radicalismo» islamico. Con il quale è un errore il negoziato, si tratta di pura criminalità, per la quale non valgono né le regole di guerra (quindi Guantanamo) né l’intangibilità dei diritti civili (quindi misure d’eccezione). Alle Nazioni unite spetta di applicare questa dottrina, il che spiega perché gli Usa invochino le loro risoluzioni indirizzate all’Iraq ma non quelle indirizzate a Israele; Israele è una democrazia, la Palestina è terreno di terrorismo, e se non è inserita fra gli stati canaglia è solo perché non la si riconosce come stato.
Questa è la dottrina Bush, che ribalta l’ipotesi internazionale che ha sorretto il secondo Novecento. Essa declassa tutti gli altri paesi da membri a pari diritti dell’Onu ad alleati più o meno renitenti degli Usa, e si capisce che le Nazioni unite o incassano o devono aprire un contenzioso gigante. Cosa tanto meno semplice in quanto il Palazzo di vetro ha coperto in passato troppi interventi illeciti degli Stati Uniti, diretti o per interposta Cia, e dopo l’11 settembre ha accettato l’ampliamento dei poteri speciali del loro presidente su tutto il globo terrestre sanciti (contro spirito e lettera della loro Carta) dal Congresso. Resta una opposizione in parte dell’Europa, nella speranza – già condivisa da Al Gore e Edward Kennedy – che Francia, Russia e Cina mettano il veto alla spedizione in Iraq (la Germania, che ha dichiarato l’ostilità più netta, non può porre veti). Il nodo esploderà, se esploderà, soltanto al Consiglio di sicurezza, e potrà anche incancrenirsi in veti incrociati. Insieme all’intervento nell’Iraq e alle conseguenze che esso avrà nel Medio oriente, si andrà o a una obbedienza generale agli States, o a una tensione sconosciuta da trent’anni e che dopo il 1989 pareva esclusa. Altro che casa comune. Sola superpotenza, gli Usa fanno quel che vogliono. E non è Kofi Annan l’uomo che avrà il coraggio di dirlo. Forse lo sarebbe stato Boutros Ghali.
E questo pone diversi problemi incandescenti. Il primo è la guerra, ristabilita come mezzo di «soluzione» dei conflitti. Il secondo è che la tendenza degli Stati uniti a sottrarsi a ogni istituzione che non controllano, rifiutando il protocollo di Kyoto e la Corte penale internazionale, mina la possibilità stessa d’un diritto internazionale. Il terzo è la validità della corrispondenza, affermata nel 1989, fra mercato e democrazia (il mercato vuole libertà, dunque la base della libertà è nel mercato). Il quarto riguarda la natura della democrazia americana: se Norman Birnbaum riprende Tocqueville sul tema d’un autoritarismo specifico della «medietà democratica», stigmatizzando l’unanimismo di cattiva lega formatosi attorno a Ground Zero (ein Volk, eine Heimat, ein Führer), viene al dunque anche la tesi, non nuovissima, di Negri e Hardt, ripresa da Bertinotti, per cui il generalizzarsi dell’attuale modo capitalistico di produzione comporterebbe un indebolimento delle meccaniche più propriamente politiche dei poteri, a cominciare dallo stato. Un impero senza imperialismo, senza spinta a dominare manu militari e a impadronirsi delle materie prime? Alla domanda pertinente posta da Ida Dominijanni (il manifesto del 14 settembre), Negri risponde, certo con preoccupazione, che la dottrina Bush è un rigurgito di arcaismo, che il capitale trascinerà via.
Dopo qualche tempo e qualche massacro. Ma se ne può dubitare. La dinamica fra soggettività storiche sedimentate, poteri mediati dagli interessi e il costituirsi di un sistema mondiale di produzione che ne sarebbe «razionalmente esente» non è semplice. L’ideologia dei padri fondatori, il richiamo a Dio, alla sacralità della proprietà e dell’ordine, la sua secolarizzazione nei western, la certezza di usare per il meglio delle risorse del pianeta dunque a prendersele, formano una coscienza compatta, che produce Bush. E pesa di più della memoria degli anni sessanta, cara all’Europa ex sessantottina. E’ con sincerità che Washington canta God bless America portando la mano destra al cuore intriso di petrolio.
La storia ha sterzato pesantemente nei tredici anni che ci separano dal 1989. La democrazia moderata flette sotto il vento di destra e la sinistra va in pezzi. Partiamo da questa constatazione.