Lo Spettro di Lenin e la rivoluzione d’Ottobre dietro le recenti suggestioni dell’ambientalismo…

Crescita e decrescita tra economia e ambiente

Troppo bello per esser vero

Negli ultimi anni, all’interno di molte formazioni politiche della cosiddetta sinistra radicale europea, è prevalsa una concezione perniciosamente “multiculturalista” della teoria e della prassi politica. Secondo questa concezione, il successo di un partito non dipenderebbe più dalla capacità di sviluppare una ferrea dialettica tra le varie posizioni in campo e di derivare, da essa, una sintesi superiore che possa guidare l’azione politica. Al contrario, il consenso si misurerebbe in base alla capacità di giustapporre visioni anche contraddittorie tra loro e di lasciare che tutte sopravvivano – ognuna depositaria di una propria verità parziale – grazie ad una sostanziale neutralizzazione dello scontro dialettico interno. La polemica ambientalista, che si trascina ormai stancamente da anni, ha subito anch’essa questo infausto destino. Ed è un peccato, considerato che gli ambientalisti appartengono a quella rarissima, dialetticamente fondamentale categoria di soggetti capaci di avere, al tempo stesso, ragione da vendere e torto marcio.
Devo avvisare che nel tentativo di superare questa contraddizione farò riferimento, in quel che segue, ad alcuni elementi di teoria. Il che dopotutto è inevitabile: per costruire infatti la sintesi rosso-verde di cui tanto si parla ma che tuttora sembra ben lungi dall’essere acquisita, non mi risulta che basti citare a caso qualche passaggio apparentemente agevole del Capitale.

Gli ambientalisti hanno ragione perché sono materialisti. Essi hanno compreso, prima e meglio di tutti, che lo sviluppo illimitato del capitale si inscrive in un orizzonte naturale finito, e che già da tempo si avvertono i primi, devastanti segnali di impatto tra la meccanica pervasiva dell’accumulazione capitalistica e i confini insuperabili del sistema naturale. Gli ambientalisti ci ricordano inoltre che tali segnali sono destinati a diffondersi e ad intensificarsi. E le loro evidenze risultano ormai talmente robuste da far giustamente dubitare della buona fede di chi avanza obiezioni nei loro confronti.

Un problema tuttavia si pone, e riguarda il modo in cui si decide di interpretare la pressione crescente del capitale sul vincolo delle risorse naturali. Sussistono a questo riguardo due opzioni: ci si può soffermare sulla possibilità che questa pressione stravolga le attuali condizioni di riproduzione dei rapporti sociali, oppure ci si può concentrare sull’eventualità che essa finisca per compromettere le condizioni di riproduzione della stessa vita sulla Terra.

Non è un mistero che molti ambientalisti prediligano, a torto, questa seconda chiave di lettura. In particolare, la prospettiva dell’autodistruzione del genere umano viene esaltata da una frangia dell’ambientalismo radicale che potremmo definire “apocalittica”. Il relativo successo di questa frangia sembra direttamente proporzionale ai suoi giganteschi limiti analitici: per quanto infatti la plausibilità di un apocalisse ambientale sia ormai un dato scientifico acquisito, appare evidente che una tale fretta di giungere alla “fine della Storia” denoti una macroscopica carenza di strumenti per lo studio dei processi sociali in corso. Non è un caso del resto che proprio gli “apocalittici” si rivolgano, sia nelle loro analisi che nelle invocazioni, all’umanità presa come un tutto, anziché alle classi e ai gruppi di interesse che la compongono e che ne costituiscono le vicende. Purtroppo questo orientamento risulta diffuso non solo presso la generosa militanza di base, ma anche tra giganti del calibro di Nicholas Georgescu-Roegen, sempre prodighi di esortazioni verso una non meglio specificata “generazione presente” a tener conto degli interessi di una ancor meno definita “generazione futura”. Georgescu-Roegen fu un brillante critico della economia volgare dominante. In alcune circostanze, come quella del “teorema di non sostituzione”, egli giunse persino ad anticipare alcuni nodi cruciali del dibattito marxista novecentesco. Ciò nonostante, bisogna ammettere che la tipica scelta, sua e degli ambientalisti, di declinare il conflitto in chiave intergenerazionale anziché di classe, rende i loro contributi esattamente speculari a quelli dell’economia volgare. Il che in un certo senso è paradossale, visto che l’obiettivo dichiarato di quest’ultima è di valorizzare l’astinenza dal consumo presente per favorire non certo il risparmio energetico ma, al contrario, proprio l’accumulazione futura di capitale.

La difficoltà di introiettare il vecchio insegnamento di Marx ed Engels, secondo il quale la storia di ogni società è storia di lotte di classi, spinge tuttora troppi ambientalisti verso una risibile deriva etico-normativa, che li induce nella migliore delle ipotesi a formulare progetti di ingegneria sociale tanto minuziosi quanto improbabili, e nella peggiore a ricercare conforto in vere e proprie fughe all’indietro, dal mondo e dal processo storico. Si pensi ad esempio al dibattito sulla “decrescita”. Su di esso è bene chiarire che, di fronte alla ormai perenne sudditanza dei programmi delle sinistre europee ai capricci del ciclo capitalistico, un attacco del genere all’apologia della crescita potrebbe anche rivelarsi salutare. E questo non certo perché il legame tra crescita capitalistica e occupazione si sia attenuato, come qualcuno erroneamente si ostina a dichiarare; quanto piuttosto perché risulta ormai chiaro a tutti il fallimento delle strategie volte a subordinare le lotte per i diritti fondamentali, incluso il lavoro, alle bizzarrie della congiuntura. Inoltre bisogna aggiungere che, in linea di principio, non vi sarebbe nulla di sbagliato nel porsi l’obiettivo politico di comprimere il reddito medio procapite a livello mondiale. Si tratterebbe anzi di una decisione assolutamente logica, se al netto del più ottimistico sviluppo delle tecnologie risparmiatrici di risorse naturali si dovesse comunque registrare un contrasto insanabile tra i limiti dell’ecosistema e l’espansione della produzione e quindi dei consumi. Ovviamente, però, un obiettivo di tale portata merita di esser preso sul serio solo se gli si affiancano adeguati strumenti d’azione. E chiunque abbia un minimo di dimestichezza con il funzionamento di un sistema economico complesso non tarderebbe a riconoscere nell’abbandono dell’anarchia capitalistica e nella espansione della economia pianificata l’unica svolta in grado di trasformare lo slogan d’élite della decrescita in un credibile obiettivo di massa.

C’è dunque lo spettro di Lenin e della Rivoluzione d’Ottobre dietro le più recenti suggestioni dell’ambientalismo radicale? Troppo bello per esser vero. In realtà la grande maggioranza degli ecologisti si divide tra chi si lascia sedurre da sofisticati meccanismi di incentivo e punizione fiscale – elaborati nell’ambito dell’economia volgare al fine di bandire l’ipotesi della “proprietà pubblica” dal dibattito politico – e chi addirittura decide di aderire alle farneticazioni di Latouche e dei suoi epigoni sulla costituzione di enclaves di produzione e consumo eque e solidali, autonome, periferiche e dissidenti rispetto alla “megamacchina capitalistica”. Insomma, se qualcuno ancora pensava che le fantasticherie di Proudhon e dei socialisti borghesi fossero ormai alle nostre spalle, farà bene a ricredersi in fretta.

I pochi ambientalisti più attrezzati sul piano sociologico e politico, tuttavia, resistono con facilità a simili, sciagurate tentazioni. Essi naturalmente non negano affatto l’eventualità dell’apocalisse ambientale, né tantomeno si risparmiano quando si tratta di mettere sotto accusa l’apologia imperante della crescita capitalistica. A tutto questo, però, essi ritengono indispensabile premettere un esame dei mutamenti che il vincolo delle risorse naturali provoca sul corso della Storia, attraverso il suo impatto sulle condizioni di riproduzione dei rapporti sociali prima ancora che della vita in generale. Non mancano, a questo proposito, ricerche tese ad evidenziare come, già a partire dal prossimo decennio, possa determinarsi una nuova tendenza nella evoluzione dei prezzi relativi del sistema economico mondiale, e quindi anche nella dinamica della distribuzione del reddito e del potere tra le varie classi sociali. Queste ricerche rivelano che, nella classifica dei “grandi ricchi” di domani, gli innovatori in campo scientifico, tecnologico e finanziario potrebbero essere rapidamente soppiantati dai meri proprietari di risorse naturali scarse: dalle fonti energetiche all’acqua, passando per le sempre più rare e inaccessibili oasi incontaminate, luoghi per eccellenza del privilegio. Tale tendenza dovrebbe tra l’altro circoscrivere l’ottimismo di chi ha recentemente sostenuto che la pressione capitalistica sull’ambiente possa esser mitigata dallo sviluppo futuro di produzioni “immateriali e pulite”. Questo ottimismo potrebbe infatti essere al limite condiviso in termini fisici, ma non certo in termini di valore. La ragione è che le produzioni immateriali non pongono alcun ostacolo all’innovazione tecnologica e quindi all’abbattimento dei costi di produzione. Al contrario, la possibilità di ridurre i costi delle merci ad elevato contenuto di risorse naturali risulterà sempre condizionata dai vincoli fisici che tali risorse pongono alle innovazioni. La conseguenza è che il peso economico delle produzioni immateriali è destinato a diminuire, mentre quello delle risorse naturali, e della rendita ad esse associata, pare inesorabilmente incamminato lungo un sentiero di crescita.

La domanda che a questo punto si pone è la seguente: chi pagherà l’incremento delle rendite assegnate ai proprietari di risorse? I dati, a questo proposito, sono inequivocabili. Da tempo si rileva che l’impresa capitalistica riesce a scaricare l’intero peso della rendita sul salario netto per unità di prodotto, attraverso una pressione diretta sui prezzi e sulle condizioni di lavoro, e una pressione indiretta sulle istituzioni per l’abbattimento della spesa sociale e la privatizzazione demaniale. Volendo ricercare una spiegazione teorica per questo fenomeno, dovremmo constatare l’ennesimo fallimento dell’economia volgare: questa, infatti, basandosi sul principio secondo cui viene sempre pagato meglio il “fattore produttivo” più scarso, dà luogo al risultato, opposto ed armonico, secondo cui l’accumulazione e la conseguente abbondanza relativa di capitale dovrebbero provocare un accrescimento non soltanto delle rendite dei proprietari di risorse naturali ma anche dei salari dei lavoratori. E dovremmo invece porgere ancora una volta un tributo agli schemi di derivazione marxiana, gli unici in grado di dar conto della compressione salariale e del conseguente legame di fatto tra sfruttamento della natura e sfruttamento del lavoro.

Ma, una volta accertata l’esistenza teorica ed empirica di questo legame, quali sono le implicazioni politiche che se ne possono trarre? L’implicazione decisiva è che l’attore principale della contraddizione tra crescita economica e limiti dell’ecosistema non si situa affatto alla periferia della “megamacchina capitalistica”, ma esattamente al centro della stessa. E’ infatti sulla classe lavoratrice che ricade sia lo sforzo della messa in movimento dell’accumulazione capitalistica, sia il danno derivante dalle scarsità naturali che la stessa accumulazione produce ed amplifica. Da anni questa contraddizione sfugge ai più, a causa del fatto che la frammentazione produttiva ha reso i lavoratori invisibili e pressoché muti sul piano politico. Essi, tuttavia, a differenza della Natura e delle generazioni future (mute per definizione), sono tuttora gli unici soggetti in grado di mettere in crisi il meccanismo di sfruttamento sul quale è fondato il sistema di potere vigente.

Per il perseguimento di questo obiettivo, gli strumenti di cui i lavoratori dispongono, allo stato dei fatti, sono ben noti: una spinta “incompatibile” sul salario per unità di prodotto e sulla quota di disavanzo pubblico destinata alla spesa sociale. Chiunque preservi ancora un minimo di memoria storica, dovrebbe riconoscere che una spinta del genere non può mai essere interpretata semplicemente alla luce della pur comprensibile esigenza dei lavoratori di migliorare le loro condizioni di vita, assolute e soprattutto relative. Quella spinta, infatti, proprio perché potenzialmente incompatibile, si presenterà sempre, in primo luogo, come una vera e propria dichiarazione: di esistenza politica e quindi di lotta per il potere e per la trasformazione sociale.

Gli ambientalisti sensibili all’insegnamento marxiano non avranno alcuna difficoltà nel convenire sul fatto che una seria battaglia in difesa della natura dovrà sempre logicamente collocarsi all’interno e in assoluta coerenza con le spinte incompatibili che la classe lavoratrice eserciterà sulle variabili economiche del sistema. Gli altri ecologisti, che preferiranno invece prender le distanze, magari paventando il rischio che tali spinte diano luogo nel breve periodo a un incremento dei consumi e quindi dell’inquinamento, indubbiamente avranno vita più facile. Essi potranno infatti placidamente continuare a pubblicare articoli allarmisti per il loro selezionatissimo pubblico, a giocare con i loro inutili esercizi di ingegneria sociale, e qualche volta avranno persino l’opportunità di flirtare con gli attuali centri di potere del sistema capitalistico. Il tutto senza avere alcun bisogno di impegnarsi nell’arduo compito di far uscire l’immaginario dei lavoratori dalla gabbia capitalistica nella quale è rinchiuso. Non credo dunque di sorprendere nessuno se, per questi ultimi ecologisti, riesumerò la vecchia definizione di nemici. Di classe, e quindi dell’ambiente.