Lo sherpa potente e accortissimo che non ama balzi nel vuoto

Un banchiere a 24 carati, un banchiere che più banchiere non si può, banchiere fin da piccolo o almeno predestinato, suo papà già lavorava alla Banca d’Italia ai tempi di Menichella. Mario Draghi, uno dei Ciampi-boys particolarmente doc. Ragazzo di famiglia, romano da quartieri alti e niente affatto ciociaro, ha tutte le carte in regola. Proprie tutte. A cominciare da quella ormai famosa scuola, la Massimiliano Massimo, diretta dai gesuiti, dove sono usciti tutti quei gran bei nomi, da Luca Cordero di Montezemolo a Cristiano Rattizzi figlio di Susy Agnelli, a Gianni De Gennaro, futuro capo della polizia, a EzioTarantelli, Marco Biagi, a Mario Draghi, appunto. Luca di Montezemolo è il primo a ricordarlo, ai tempi di quella scuola: «Mario era il più serio e il più bravo. Era già come adesso. Vestiva già allo stesso modo». Molto formale, molto inglese, giacca, cravatta, scarpe sempre ben lucidate, si suppone. Mario il primo della classe, non ha certo deluso il suo papà. Dopo Montezemolo, anche tutti gli altri si sprecano ad elogiarlo, è un coro unanime di approvazione e stima, i titoli dei giornali sono lusinghieri, «L’economista che ha riscritto la Finanza », «La scalata del grande sherpa», «Un uomo “del fare”», «Il grande privatizzatore». Il suo profilo, quello che stampa e agenzie rimandano ormai a cascata, è alto, altissimo. Tutti rimarcano il suo “prestigio professionale”, la sua “fama internazionale”; e le sue
esperienze, la sua cultura, il suo valore di studioso e di economista d’azione. Pragmatico, lo definiscono tutti, concreto, giovane, laico, largamente apprezzato negli ambienti che contano dell’alta finanza; nonché coautore di un libro con Rudy Dornbusch, un santone dell’economia tedesco-americano; e allievo di Federico Caffè e di Franco Modigliani e dell’emerito econometrico Franklin
Fisher al Mit di Boston. Infatti l’ex primo della classe dell’Istituto “Massimo” ha continuato imperterrito ad essere tale: nella sua biografia c’è anche scritto che ha conseguito un Ph. D. (diploma di terzo livello) addirittura nel 1976, in era che in Italia nessuno se lo sognava. E c’è scritto pure che ha lavorato a libri con il premio Nobel Robert Merton e con Francesco Giavazzi; e c’è scritto che ha indissolubilmente legato il suo nome al nuovo Testo della Finanza (che passa alla storia appunto come legge Draghi): un Testo che quelli che se ne intendono definiscono il vero «motore tecnico della grande stagione di privatizzazioni degli anni 90». Bravo. L’uomo del club “dei signori delle monete”, il nocchiero dell’ingresso in euro, l’esperto della Bce, il viaggiatore sul “Britannia” in compagnia del gotha dell’alta finanza inglese. Non gli manca nulla. «Caro direttore, a palazzo Koch, una merchant bank che parla inglese», manda a dire la ironica “mail” del Riformista. Grazieadio, il “Maurio”, come lo chiamava il ministro tedesco Tietmeyer, l’inglese lo parla come una seconda lingua madre e – c’è sempre scritto nella sua scelta biografia – lui ha girato il mondo, ma a Londra è proprio di casa (da questo punto di vista, siamo dunque a posto). Ma è di stile inglese, il nuovo Governatore, anche per quanto riguarda riservatezza e discrezione, niente gossip feste e salotti, pochissime apparizioni ed esposizioni, bella moglie bionda esperta di letteratura inglese, due figli grandi (il maschio è un bocconiano e la ragazza laureata in chimica). Ama non la barca ma la montagna; però non si avventura mai con corde e scarponi in ripide scalate senza l’ausilio di una guida: molto british anche in questo, Mario Draghi, lo sherpa potente e accortissimo che non ama balzi nel vuoto. Sul suo scranno di vice-presidente della Goldman Sachs
(leader mondiale delle banche d’investimento) guadagna così tanto, dicono i ben informati, da rendere poco allettanti persino i non miseri emolumenti da capo di Bankitalia. Sorridente, un viso aperto e un po’ volpino, ben pettinato e ben vestito: il nuovo Governatore è stato praticamente voluto da tutti. Da Berlusconi che ha ceduto su Desario, da Prodi che ha dato l’ok in una telefonata riservata col presidente del Consiglio avvenuta, pare, il 26 dicembre; da Fini e anche da Bossi; Ciampi, che forse avrebbe preferito Tomaso Padoa Schioppa, è stato ben felice di firmare di proprio pugno la nomina del più brillante dei boys suoi collaboratori
in Bankitalia negli anni Novanta; ds e Margherita ne «apprezzano le qualità». E lo acclama la Repubblica in un fondo addirittura intitolato “Rifondazione Bankitalia”. Prosit. L’unica voce fuori del coro, e a ragion veduta, è quella di Rifondazione,
come si può leggere in questa stessa pagina. Cinquantotto anni, la carriera di Mario Draghi è tutta ad alta velocità. Borsista del Mediocredito, studia e insegna nei migliori campus Usa, nel ’76 consegue il Ph. D in economics, nell’81 è prof universitario a Firenze, nel ’91direttore generale del Tesoro, dove resta per dieci anni consecutivi. Inamovibile, indispensabile, deus ex machina
della stagione delle grandi privatizzazioni: rimane su quella poltrona sotto i governi Andreotti, Amato, Ciampi, Berlusconi, Dini, Prodi, D’Alema, ancora Amato e ancora Berlusconi. Sotto la sua regia viene privatizzato tutto quello che è possibile, in liquidazione I’Iri, Telecom Italia, Eni, Enel, Comit, Credit. Privatizza e se ne vanta, «una rivoluzione culturale», la chiama lui, e in quegli anni “trionfanti” è definito non per nulla l’uomo più potente dell’economia italiana. Nel 2001 lascia, va ad Harvard, poi alla Goldman Sachs dove fa benissimo il suo mestiere, l’arte di fare soldi dove ci sono soldi. In quel tempio degli affari mondiali, la sua decisione di andarsene, dicono, ha lasciato scompiglio e dispiacere. E anche a lui dispiace, un po’. «Perché anche i banchieri hanno un’anima», ha dichiarato una volta. Mah.