Naguib Mahfuz, qui in Italia, abbiamo imparato ad apprezzarlo da quando, nel 1988, gli assegnarono il premio Nobel per la letteratura, il primo in assoluto consegnato a un arabo. Non a caso, l’anno immediatamente successivo, uscirono per Feltrinelli i primi titoli dello scrittore egiziano Il vicolo del mortaio e la raccolta Racconti del nostro quartiere. Poi arrivò la Trilogia del Cairo, tradotta in italiano dall’editore Tullio Pironti, con tre titoli che si dimostrarono un successo: Il palazzo del desiderio, Tra due palazzi (oltre 50mila copie vendute) e La via dello zucchero.
Lo stesso editore fece uscire anche Il tempo dell’amore (1990), La taverna del gatto ( 1993), Chiacchere sul Nilo (1994), Principio e fine (1994), Il settimo cielo (1997), Echi di un’autobiografia (1999), con la prefazione di Nadine Gordimer, Il miraggio (2001) e Il rione dei ragazzi (nel 2000 da Pironti e nel 1991 da Marietti). La lista delle traduzioni si allunga con il catalogo di Feltrinelli, sotto la spinta dell’immigrazione musulmana in Italia e la curiosità nei confronti dell’Islam. Escono Canto di nozze, Vicolo del mortaio, Il nostro quartiere e Miramar. All’appello mancano soltanto le saghe storiche pubblicate da Newton Compton, come Akhenaton, il faraone eretico.
In patria la notizia della morte di Mahfuz – aveva 94 anni e si trovava in ospedale per le conseguenze di una caduta – ha avuto una grande risonanza, segno di quanto la sua letteratura fosse molto popolare. Non è stato soltanto un protagonista della vita culturale del suo paese, ma anche un personaggio “politico”. I suoi romanzi hanno avuto spesso una dimensione pubblica. Proprio la popolarità delle sue opere lo ha reso uno scrittore degno d’attenzione, nel bene e nel male, delle classi dirigenti che si sono succedute in Egitto, dall’epoca d’oro del nazionalismo nasseriano fino all’attuale era Mubarak – il presidente che l’ha definito «uno scrittore eccezionale, un pensatore colto e creativo, uno scrittore che ha fatto conoscere la cultura e la letteratura araba in tutto il mondo».
Autore molto letto. Il che non gli ha certo evitato polemiche. Gli integralisti islamici lo avevano preso di mira. Era stato accusato di blasfemia, alcuni suoi scritti erano finiti all’indice perché considerate dalle autorità religiose «irriverenti verso la religione», come il contestato romanzo Il rione dei ragazzi, scritto nel 1959, pubblicato in Libano e circolato in Egitto in forma semiclandestina.
Il premio Nobel aggrava ancor di più la sua posizione agli occhi degli integralisti. Arrivano le prime minacce di morte, poi sei anni dopo l’aggressione, mentre sta salendo su un’auto che lo avrebbe portato alla sede del quotidiano al Ahram, per il quale tiene una rubrica settimanale. Lo aggrediscono con due coltellate, una lo colpisce alla gola. Si salva per miracolo. Ci sarà un processo, con sette fondamentalisti arrestati, di cui due condannati a morte. Uno degli assalitori avrebbe ammesso di non aver neppure letto il romanzo incriminato.
Era nato nel 1911 al Cairo, Mahfuz, nella città delle viuzze e delle botteghe minute che fa da sfondo a molti suoi romanzi. Nelle sue descrizioni si riflette una metropoli passata, nel corso dell’ultimo secolo, dai tempi decadenti e po’ estetizzanti della monarchia al risveglio del progetto panarabo nasseriano. Formazione umanistica, il giovane Mahfuz si laurea in lettere e filosofia. L’esordio con Abas al akdar non fa ancora presagire il successo dei tempi futuri. I favori dei lettori e della critica arrivano solo più tardi con il ciclo narrativo Hams el ghihinun, una sorta di autobiografia sulla sua generazione. Di lavori ne pubblicherà una cinquantina, tra i più famosi, appunto, la Trilogia del Cairo (1956-57), Il ladro e i cani (1961) e Il nostro quartiere (1975), l’opera a sfondo storico La saga degli Harafish del 1977. Ma si dimenticano spesso gli altri versanti della sua attività sconfinata, soprattutto quella di commediografo, giornalista e sceneggiatore. Proprio la scrittura per il cinema gli permette di raggiungere un pubblico vastissimo e popolare, anche quello analfabeta. Si cimenta prima nella sceneggiatura di testi altrui, poi come autore di novelle e racconti adattati al grande schermo. Forse è questo il capitolo della sua biografia intellettuale trascurata dai critici, specie da quelli stranieri. Al centro di questa letteratura popolare per immagini c’è proprio la Cairo delle mille attività, delle botteghe, dei suk, dei caffè, una città rimbalzata dalle immagini dei vecchi film, dei lavori neorealistici e, ancora, nelle commedie degli anni Settanta, come se ne trovano nei canali televisivi di Stato. Anche il suo principale ciclo romanzesco, la Trilogia del Cairo è stata trasposta in pellicola. E non è da sottovalutare l’influenza che la scrittura di Mahfuz, le sue ambientazioni quotidiane, le sue descrizioni sociali hanno avuto sui registi egiziani con molti dei quali ha collaborato in prima persona, da Youssef Chahine all’artefice del realismo Salah Abu Seif. Di quest’ultimo due basati proprio sulle novelle di Mahfuz sono passati alla storia del filone realistico egiziano: Cairo 30 e Inizio e Fine.
Ma alla fine il cinema lo aveva deluso. «Il cinema arabo di oggi – scriveva due anni fa sul settimanale Al Ahram – è in generale ordinario. Persino la recitazione, che spesso è molto migliore delle sceneggiature o delle regie, è raramente straordinaria come ci si potrebbe aspettare».