Lo scontro Euro-Dollaro dietro la crisi del debito sovrano UE

Il debito Usa è un “riparo sicuro” allo stesso modo in cui era considerato un porto sicuro Pearl Harbour nel 1941. Niall Ferguson, Financial Times

Senza stabilità nell’unità monetaria non esistono facilità di credito né sicurezza per chi presta il proprio denaro al principe, né contratti nei quali si possa riporre fiducia. E senza credito non c’è grandezza né superiorità finanziaria. Fernand Braudel, I tempi del mondo

La guerra finanziaria ora è venuta ufficialmente alla ribalta sulla scena della guerra, una scena per millenni occupata unicamente da soldati ed armi con sangue e morte ovunque. Quiao Liang – Wang Xiangsui, Guerra senza limiti

1. La crisi di sovrapproduzione è alla base della crisi del debito sovrano Il mercato autoregolato ha fallito. E ancora una volta, come è sempre accaduto nella storia del modo di produzione capitalistico, il “moderno principe”, lo Stato, è dovuto correre al salvataggio delle imprese e della banche. Gli aiuti di Stato al settore bancario hanno superato i 14mila miliardi di dollari, pari a un quarto del Pil mondiale, una cifra che non ha paragoni nella storia [1] . Tutto questo per evitare un collasso generalizzato del modo di produzione, che avrebbe riproposto i drammi della Grande Depressione. Tuttavia, nonostante l’enorme massa di liquidità immessa, la crisi è tutt’altro che risolta, come provano i 50 milioni di disoccupati in più a livello mondiale nel 2009 rispetto al 2008. Nell’ultimo trimestre 2009 il Pil è “cresciuto” nell’area euro del +0,1%, in Germania, la locomotiva europea, è rimasto ancorato allo 0%, e in Italia è arretrato del -0,2%, il che significa che si è ancora in piena crisi. Negli Usa la presunta ripresina è “un grattacelo su basi fragili”, determinata non dalla domanda al consumo ma dalla ricostituzione parziale delle scorte, e sostenuta da elementi non strutturali, cioè artificialmente dalla spesa dello Stato, che ha addirittura raggiunto i livelli del tempo della Seconda guerra mondiale [2] .

Inoltre, la riduzione del costo del denaro e la massa di liquidità statale immessa nel sistema finanziario hanno dato avvio a nuova speculazione, compresa quella sui mutui [3] , e alla formazione di nuove bolle (materie prime, petrolio), riproducendo anche in questo aspetto un meccanismo già visto. Ma soprattutto oggi è il “principe” a essere manifestamente in difficoltà. Mediamente il deficit pubblico dei principali paesi industrializzati è passato dal 2,2% del 2007 al 10,1% di fine 2009 [4]. La crisi di sovrapproduzione assoluta di capitale e di merci, manifestatasi come crisi finanziaria con lo scoppio della bolla immobiliare negli Usa, ha ora cambiato faccia e si presenta nella forma di crisi del debito sovrano, ovvero sotto forma di crescita incontrollata del debito e del deficit pubblico. Tuttavia, gli attuali debiti pubblici non hanno origine recente. Infatti, l’evolversi della crisi, a partire dal suo primo manifestarsi dopo il boom postbellico a metà degli anni ’70, ha prodotto ciclicamente bolle finanziarie e rigonfiamento del debito pubblico, a causa dei ricorrenti abbattimenti del costo del denaro e dell’aumento delle spese pubbliche allo scopo di sostenere un mercato che non riusciva a stare al passo di una produzione di merci e di una accumulazione di capitale sempre più ridondanti. Il debito pubblico Usa comincia a crescere nominalmente alla fine degli anni ’70 e in termini reali all’inizio degli anni ’80 con la politica espansiva fiscale e militare della presidenza Reagan.
La crisi attuale è più grave delle altre verificatesi all’inizio degli anni ‘80, ‘90 e nel 2001 perché i metodi per risolverle hanno riprodotto su una base progressivamente più larga le condizioni su cui si sviluppa la crisi, cioè la contraddizione tra produzione e mercato e l’accumulazione eccessiva di mezzi di produzione sotto di forma capitale. Riguardo al debito sovrano, la crisi attuale, da una parte, lo ingigantisce, come abbiamo visto, e, dall’altra, lo porta allo scoperto e soprattutto evidenzia la difficoltà a sostenerlo per l’impossibilità a mantenere la crescita dell’economia. Infatti, se il sistema produttivo ristagna o è in recessione si riduce il gettito fiscale degli stati, che hanno così difficoltà a recuperare risorse per finanziare il servizio al debito. Di conseguenza, gli Stati che hanno una struttura produttiva più fragile sono percepiti dai mercati finanziari come cattivi creditori, e hanno difficoltà a collocare sul mercato titoli del debito pubblico, se non a costi (rendimenti) più alti. In questo modo, tali stati hanno difficoltà non solo a finanziare il nuovo debito ma anche quello pregresso, con il rischio di andare in default. È quanto sta accadendo ai paesi della periferia dell’area euro, Irlanda, Portogallo, Spagna e Grecia. Si tratta dei Paesi meno forti economicamente perché non hanno una struttura industriale paragonabile a quella dei paesi centrali della Ue (Germania, Francia, Belgio, Olanda, Italia). E si tratta di Paesi che spesso hanno seguito il modello anglosassone di crescita basata sull’indebitamento delle famiglie, come la Spagna (85% del Pil contro il 40% dell’Italia), sull’onda del denaro facile degli ultimi anni. La Grecia si è affidata all’uso di derivati, assecondando il consiglio di due grandi banche Usa, allo scopo di evitare ascrivere i finanziamenti nel debito. Allorché il trucco contabile è venuto fuori, il debito ed il deficit sono schizzati in alto, e il mercato ha costretto la Grecia, per collocare il suo debito pubblico, ad offrire rendimenti più alti. A ciò si aggiunge il fatto che, l’economia greca, largamente dipendente dai noli marittimi, è risultata particolarmente esposta alla contrazione del commercio mondiale. Il rischio, ora, sembrerebbe essere quello del fallimento della Grecia, e, ancora peggio, l’estensione del pericolo agli altri paesi della fascia periferica dell’euro. Senza contare le ripercussioni negative sulla banche tedesche e francesi, che si sono pesantemente esposte con la Grecia, avendone utilizzato i titoli del debito pubblico come garanzia nei confronti della Bce. Tutto questo ha scatenato una campagna massmediatica secondo cui sarebbe a rischio, insieme alla permanenza nell’euro della Grecia e forse di altri paesi, condizionata al salvataggio da parte dei paesi forti dell’area, l’esistenza stessa della moneta unica.

2. La formica e l’elefante: c’è debito e debito Tuttavia, in questa posizione c’è qualcosa che non torna completamente, come hanno notato alcuni commentatori. La Grecia ha un debito pubblico molto alto, pari al 120% del Pil, ma ha un debito delle imprese del 50% contro la media europea del 100%, e un debito delle famiglie del 40%, contro il 60% europeo. Se si guarda al debito totale, si vede che questo è molto al di sotto della media europea[5]. Inoltre, mentre i mercati hanno preso di mira la Grecia e il Portogallo, enfatizzando oltre misura la rinuncia di quest’ultimo al collocamento di 300 milioni di euro di titoli di Stato su 500 previsti a causa del balzo dei rendimenti[6], la situazione di altri Stati, che sono in una situazione peggiore, sembra essere passata del tutto sotto silenzio. Tra questi, prescindendo dai molti “emergenti” nell’Europa dell’Est (Ucraina, Paesi Baltici, Romania) e nell’Asia Centrale (Kazakistan), che sono quasi al collasso[7], troviamo molti Paesi avanzati. In Europa occidentale, ma al di fuori dell’area euro, c’è la Gran Bretagna, con i più alti indebitamenti mondiali della finanza (202% del Pil) e delle famiglie (101%). Ma soprattutto, al primo posto ci sono gli Usa, che raggiungeranno nel 2010 un debito pubblico del 100% e nel 2011 un deficit dell’11% e che, anche a causa dell’indebitamento delle famiglie, il secondo a livello mondiale (96%), e l’insolvenza di alcuni dei maggiori stati, “sono lo stato complessivamente più indebitato al mondo.”[8] Significativamente Niall Ferguson ha scritto sul Financial Times che “Il debito Usa è un riparo sicuro allo stesso modo in cui era considerato un porto sicuro Pearl Harbour nel 1941.” A ciò è da aggiungere che, se la Grecia ha truccato i conti, non si può certo dire che gli Usa siano del tutto trasparenti. Infatti, al debito contabilizzato, si dovrebbero aggiungere le garanzie statali sui mutui finanziati dai due istituti Fannie Mae e Freddie Mac, virtualmente ma non formalmente statalizzati proprio per non ascrivere al bilancio federale i 1600 miliardi di debito e i 4700 miliardi di garanzie, che farebbero lievitare il debito Usa al 140%[9]. Secondo il Congressional Budget Office, poi, il debito Usa sarebbe ancora più grande perché dalla sua contabilizzazione vengono sottratte spese molto importanti, come le pensioni dei reduci di guerra e gran parte delle spese sanitarie[10]. Inoltre, l’impatto del debito degli Usa sull’economia e sui mercati finanziari mondiali dovrebbe essere molto superiore a quello della Grecia, visto che, in termini assoluti, sta a quello della Grecia o del Portogallo come un elefante sta a una formica. Dunque, perché la Gran Bretagna e gli Usa non sono stati presi di mira al contrario della piccola Grecia? Ciò dipende da vari fattori. In primo luogo, gli Usa dispongono della moneta di scambio e di riserva internazionale. Grazie a questa, i loro titoli del debito pubblico sono acquistati dai paesi con un surplus commerciale (i paesi petroliferi o i paesi forti esportatori di manufatti come Cina e Giappone) per garantirsi riserve atte a stabilizzare le loro valute. In pratica gli Usa hanno affrontato la crisi stampando continuamente moneta. Ciò nel breve periodo può funzionare, alla lunga è molto più difficile che tenga. Intanto, negli Usa i tassi d’interesse prossimi allo zero per cento praticati dalla Fed e la forte crisi ancora irrisolta, nonché l’enorme indebitamento hanno determinato un significativo indebolimento del dollaro, che, prima della crisi del debito sovrano greco, era precipitato nei confronti della moneta unica europea. Ora, il problema per gli Usa è che l’indebolimento del dollaro e soprattutto l’aumento del debito stanno mettendo a dura prova la loro capacità di attrarre risparmio dall’estero e finanziare il loro debito, proprio nel momento in cui ne hanno più bisogno degli altri. Sin dall’inizio della sua presidenza Obama si è impegnato nella caccia al maggiore surplus commerciale mondiale, quello cinese, cercando di esercitare ogni tipo di pressione (protezionismo, Tibet, vendita di armi a Taiwan) sul governo estremo orientale. I risultati sono stati piuttosto deludenti se nel 2009 la Cina ha acquistato solo il 4,6% dei nuovi titoli di Stato, molto meno del 20,2% del 2008 e del 47,4% del 2006, con una flessione a novembre 2009 rispetto a luglio[11]. Anzi, quanti possiedono titoli americani cercano di venderli sul mercato ed il risultato è che nel dicembre 2009 Pechino, con 755,4 miliardi di obbligazioni, è stata superata, per la prima volta dopo molto tempo, da Tokyo, con 768,8 miliardi, perdendo l’ormai poco invidiabile titolo di maggiore detentore mondiale di Treasury bond[12]. Si tratta di un segnale bruttissimo per Usa. Nello stesso tempo in cui gli Usa faticavano a collocare i loro bond, l’euro continuava la sua corsa e il dollaro scendeva fino a quota 1,50 verso la moneta europea. È in questo quadro che si inserisce la crisi del debito sovrano di alcuni Paesi Ue e, fra questi, della Grecia. È casuale che proprio a seguito della possibilità di default della Grecia e della sua uscita (magari seguita da altri Paesi) dall’area euro, il dollaro si sia rivalutato sulla valuta europea, risalendo a quota 1,36, mentre l’euro ha lasciato sul terreno quasi il 2% dall’inizio di febbraio cioè da quando la questione del debito greco è scoppiata? Ed è casuale che il cedimento dell’euro sia avvenuto proprio nel momento di maggiore difficoltà del dollaro? Marcello De Cecco, riprendendo il premio Nobel Stiglitz e il noto economista tedesco Peter Bofinger, parla, a proposito della Grecia, di “manovra speculativa condotta dalle grandi banche internazionali.” E prosegue:”Non è difficile leggere sui principali giornali inglesi e americani la speranza che la crisi speculativa attuale si concentri sull’Europa per parecchio tempo. Le famose agenzie di rating sembra stiano operando affinché ciò accada. Standard&Poor’s ha dichiarato agli inizi dello scorso dicembre [notare la data] di aver messo sotto osservazione il debito a lungo termine greco con implicazioni negative per il futuro. Non sembra che abbia fatto lo stesso per quanto riguarda la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, malgrado il fatto che ormai i titoli a lunga americani rendono più di mezzo punto di più di quelli tedeschi e che le prospettive del bilancio degli Usa siano pessime.”[13]La posizione di Gregorio De Felice, presidente dell’Associazione analisti finanziari, è altrettanto chiara in una intervista intitolata >: “E infatti l’altro fattore di instabilità è che molti stanno scommettendo sulla disgregazione dell’euro.”[14]Anche Walter Riolfi sul Sole24ore ha affermato che “la speculazione internazionale ha giocato pesante contro i debiti di Grecia, Spagna e Portogallo e contro l’euro”, riportando la notizia che “nei sette giorni precedenti il 2 febbraio qualche grande banca e parecchi hedge fund hanno aperto posizioni al ribasso sull’euro per 8 miliardi di $, oltre 40mila contratti al Chicago Mercantile Exchange: un record da quando è stata creata la valuta europea. Questa notizia rende credibili le voci che alla base del tracollo del debito greco, spagnolo e portoghese vi sia stata l’azione di una grande banca Usa e di due o tre hedge fund che sarebbero andati corti (al ribasso) sui cds sovrani.“[15] Comunque, per rispondere alla nostra domanda, casuale o meno[16] l’effetto è stato quello di indebolire l’euro e gettare un ombra di dubbio sulla tenuta dell’unica valuta che può ambire a sostituire o affiancare il biglietto verde Usa. Di fatto c’è stata una convergenza tra interessi statali Usa e speculazione finanziaria internazionale, che, nel carry trade, gioca, incentivandola, sulla variabilità delle differenze dei cambi valutari. Il colpo è stato inferto lì dove il ghiaccio era più sottile, alla periferia del cuore della Ue. Ciò che rimane da vedere sono le implicazioni di questo colpo.

3. Competizione per il capitale mobile e difesa dell’entrep?t statunitense Secondo alcuni storici, in ogni ciclo lungo del capitale prevale un centro di direzione del processo d’accumulazione[17]. Tale centro funziona come entrep?t mondiale, cioè come centro di attrazione e smistamento dei capitali a livello mondiale. È questa funzione a renderlo dominante. Se l’accumulazione del singolo capitale è essenzialmente comando sul plusvalore, l’accumulazione del capitale a livello mondiale è comando sul surplus mondiale, cioè sul plusvalore mondiale sotto forma di risparmio. A seguito della fine del dominio britannico e della sterlina negli anni ‘20-’30, e soprattutto dopo la vittoria nella Seconda guerra mondiale il ruolo di entrep?t mondiale è stato assunto dagli Usa, attraverso la loro preponderanza economica cui corrispondeva il ruolo di moneta mondiale del dollaro. Gli Usa continuano ancora oggi ad esercitare il ruolo di centro finanziario mondiale attirando il risparmio mondiale e redistribuendolo. Tuttavia, da decenni tale ruolo è in crisi, a causa della perdita di posizioni nell’industria e nel commercio mondiali. In una fase di crisi e di riorganizzazione mondiale del potere economico mondiale, la concorrenza si accentua tra le imprese e, dal momento che le imprese hanno bisogno dello Stato, che è diventato finanziatore delle banche e quindi finanziatore di ultima istanza, la concorrenza si trasferisce a livello statuale. Quindi, contrariamente a quello che si sosteneva fino a poco tempo fa, le funzioni dello Stato si ampliano e si rafforzano, e, invece che lo Stato leggero, ritorna di moda il Big governament. L’unica differenza è che gli Stati devono avere dimensioni sempre maggiori, ormai continentali, per essere davvero competitivi. La competizione maggiore è, come abbiamo visto, quella per il capitale mobile mondiale. Una competizione che vede coinvolti anche gli Stati più forti, visto che le criticità dei debiti pubblici dei paesi avanzati sono aumentate, riducendo il gap storico con i Paesi emergenti. Si tratta, inoltre, di una competizione che diviene tanto più forte nella misura in cui, come in effetti accade dall’inizio di quest’anno, il rischio insolvenza degli stati è diventato persino più alto di quello delle imprese, un fatto mai successo nella storia[18]. Da diverso tempo la gran parte dei commentatori economici e geostrategici si sono concentrati pressoché esclusivamente sul confronto tra Usa e Cina. La ragione è ovvia. Si tratta dei due unici Stati (Russia a parte) che hanno dimensioni veramente continentali e che hanno una forza militare al di sopra di tutti gli altri (molto meno la Cina in realtà). Inoltre, la Cina ha ormai assunto, insieme al resto dell’Asia orientale con cui è sempre più integrata, il ruolo di maggior polo produttivo mondiale. Tuttavia, essere grandi produttori di merci non significa necessariamente essere in grado di dirigere i processi di scambio mondiale. Ci vuole una capacità finanziaria che la Cina ancora non possiede e che forse è difficile che acquisisca a breve. Dunque, dietro e accanto alla competizione Usa-Cina si staglia un altro confronto, di cui ultimamente ci si è dimenticati. Quello tra Usa e area euro. Una condizione necessaria alla superiorità finanziaria, come ricorda Braudel, è la stabilità monetaria[19]. Una dote che gli Usa, con il dollaro, hanno perso da tempo. Paradossalmente, proprio l’instabilità valutaria, nella forma della svalutazione, ha consentito agli Usa di finanziare la “Guerra fredda” a spese del Giappone, i cui prestiti in dollari sopravvalutati sono stati restituiti in dollari sottovalutati[20]. Oggi, la fuga cinese dai titoli di Stato Usa vuole evitare di rimanere vittima dello stesso trabocchetto. Al contrario del dollaro, l’euro sin dalla sua nascita si è dimostrato una valuta estremamente stabile. Dunque, l’euro, anche a fronte della necessità dei Paesi che lo adottano di finanziare il debito e i grandi programmi infrastrutturali, si erge nei confronti del dollaro come un possibile agguerrito concorrente nella competizione per il capitale mobile mondiale e in particolare per il surplus cinese. Infatti, se confrontiamo le due entità – Usa e Eurolandia – vediamo quanto la seconda, come aggregato economico, sia messa molto meglio rispetto alla prima, il che spiega la forza relativa dell’euro sul dollaro. Considerata nel suo complesso Eurolandia ha un debito pubblico del 78% contro il 100% (almeno) degli Usa. Soprattutto, mentre gli Usa associano al debito federale e a quello delle famiglie il maggiore debito commerciale con l’estero del mondo, pari a 518,4 miliardi di dollari, l’area euro ha un attivo commerciale di 25,3 miliardi[21]. Se, però, andiamo a vedere nel dettaglio troviamo una situazione molto differenziata: la gran parte dell’attivo (158 miliardi) è concentrato in Germania, mentre altri Paesi, compresa la Francia, hanno debiti commerciali, fra i quali di particolare entità sono quelli di Spagna e Grecia. Il fatto è che, grazie all’euro, l’Europa occidentale si è molto integrata, ponendo al centro della divisione del lavoro tra i vari Paesi proprio la Germania e la sua forte struttura industriale. Ora, però, la Germania, che ha tratto giovamento dall’euro, aumentando l’export e soprattutto l’attivo commerciale, sembra poco incline a considerare tale integrazione non solo come un vantaggio ma anche come un onere, assumendosi il carico della cintura periferica più esposta alla crisi. Nello stesso tempo Eurolandia non può emettere titoli di debito europei (gli eurobond), a differenza del Tesoro Usa, né la Bce, a differenza della Fed americana, può stampare moneta per finanziare l’economia, perché ciò fuoriesce dal suo mandato che non è quello di stimolare l’economia, bensì di garantire stabilità all’euro. In definitiva, il problema di fondo è che Eurolandia non è una vera realtà statale, bensì una specie di ircocervo, un animale irreale che non può attuare le politiche centrali che in questa fase sarebbero necessarie. Eppure, Eurolandia avrebbe le carte in regola per assumere la forma di Stato-continente adeguata alla fase storica attuale. L’attacco alla periferia debole di Eurolandia appare come un tentativo di indebolire, disarticolandola, l’area euro, in funzione di una difesa dell’entrep?t Usa, e può avere solo due sbocchi. O una accelerazione verso una integrazione politica o uno sfaldamento dell’area euro stessa. Nell’attuale fase di rivolgimento e di acutizzazione della concorrenza, che prefigura inediti assetti mondiali, Eurolandia non può rimanere in mezzo al guado. Domenico Moro (19 febbraio 2010)

[1] Nicol degli Innocenti, La crisi ha scambiato i ruoli tra le banche e i governi, Il Sole24ore, 12 novembre 2009.
[2] Riccardo Sorrentino, Un grattacielo su basi fragili, Il Sole24ore, 30 gennaio 2010. Edmund L. Andrews, U.S. Debt bomb: Balloon Payments Due, The New York Times, November 30, 2009.

[3]Angelo Acquaro, Ritorno al passato per i mutui americani sui mercati la nuova ombra dei derivati, la Repubblica, 23 novembre 2009.

[4] Antonella Olivieri, Aiaf: >, Il Sole24ore, 15 dicembre 2009.

[5]Morya Longo, Nel rischio insolvenza gli stati battono le imprese, Il Sole24ore, 3 febbraio 2010.

[6] Michele Calcaterra, Fallisce un’asta di bond portoghesi, Il Sole24ore, 4 febbraio 2010.

[7] Marco Panara, L’effetto-Grecia si allarga ad Est, Affari e Finanza de la Repubblica, 7 dicembre 2009.

[8] Walter Riolfi, Se il Bund soffre il Treasury va peggio, Il Sole24ore, 14 febbraio 2010.

[9] Mario Margiocco, Garanzia di Obama sui mutui Usa, Il Sole24ore, 16 febbraio 2010.

[10] Il debito complessivo sarebbe stato nel 2004 pari al 500% del Pil. The Congressional Budget Office, Measures of the U.S. Government’s fiscal position under current law, agosto 2004. Cit. anche in Mario Dolfini, Debito e Impero, Limes n.1, 2005.

[11] Il 13 marzo 2009 il premier cinese Wen Jiabao aveva detto: “Abbiamo prestato un’enorme quantità di denaro agli Usa, per cui siamo preoccupati sulla solidità dei nostri assets. E se devo essere sincero nutro qualche timore.” Cit. in Vittorio Da Rold, Pechino compra meno debito americano, Il Sole24ore, 17 febbraio 2010.

[12] M. Val., T-bond Usa: il Giappone risorpassa la Cina, Il Sole24ore, 17 febbraio 2010.

[13] Marcello De Cecco, Euro, la speculazione arriva dalle banche internazionali, Affari & Finanza di la repubblica, 15 febbraio 2010.

[14]Antonella Olivieri, La speculazione attacca gli stati deboli, Il sole24ore, 14 febbraio 2010.

[15]Walter Riolfi, L’euro sotto i colpi della speculazione internazionale, Il sole24ore 9 febbraio 2010.

[16] Tra quelli che hanno dubbi sulla casualità della crisi del debito dei Pigs ci sono i servizi segreti spagnoli. “Il Centro Nacional de intelligencia (Cni) ha promosso una indagine in profondità sui movimenti del mercato azionario per vedere se ci siano state manovre concertate, sia a livello domestico, che a livello internazionale. E in particolare esaminare la posizione di alcuni giornali anglosassoni che nelle settimane scorse hanno “picchiato” duro contro il paese.” In Servizi spagnoli a caccia di complotti, Il Sole 24ore, 16 febbraio 2010. Sull’uso della guerra finanziaria come uno degli strumenti principali della guerra asimmetrica vedi: Quiao Liang – Wang Xiangsui, Guerra senza limiti, Libreria editrice Goriziana, Gorizia 2002. In particolare, in riferimento alla crisi del Sud-est asiatico degli anni ’90 e alla caduta del muro di Berlino, i due autori cinesi scrivono: “Quando rileggeremo i libri di storia sulla guerra del ventesimo secolo, il capitolo sulla guerra finanziaria sarà quello che richiamerà più attenzione. “ Significativo, inoltre, è quanto affermato sul “Los Angeles Times” del 23 agosto 1998: “Attualmente sono i mercati finanziari la più grave minaccia alla pace del mondo, non i campi di addestramento dei terroristi.”

[17] Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo, Il Saggiatore Net, Milano 2003. Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, Torino 2007.

[18] In pratica costa meno assicurarsi dal rischio di fallimento di una impresa europea che di uno Stato. Vedi Morya Longo, Nel rischio insolvenza gli stati battono le imprese, Il Sole24ore, 3 febbraio 2010.

[19] Cit. in Giovanni Arrighi, op. cit., pag. 248.

[20] Giovanni Arrighi, op. cit., pag. 37.

[21]The Economist, 6th -12th February 2010. Economic and financial indicators, Trade, exchange rates, budget balances and interest rates.

da pdcinews.it