Lo sciopero dei 40 giorni, il capolavoro degli operai del mare

Il Novecento risulterebbe essere – secondo diverse vulgate, perniciosamente diffuse anche a sinistra, persino nel cuore della sinistra radicale – un tremendo cumulo di macerie: tragedie ed orrori che avrebbero segnato anche l’esperienza mondiale (irrevocabilmente fallimentare) del movimento operaio.
L’ultimo libro di Giordano Bruschi, La sfida dei marittimi ai padroni del vapore (Fratelli Frilli Editore, 2006, 172 pagine, euro 13,50), ci dimostra il contrario, attraverso il racconto di un episodio eclatante – e per questo paradigmatico – di lotta di classe. La Storia del secolo scorso, raccontata attraverso le lenti dei lavoratori e delle loro battaglie, riacquista così la sua complessità e quindi le sue contraddizioni e i suoi conflitti.
Lo sciopero “dei quaranta giorni” del 1959 è uno di questi memorabili conflitti. Giordano Bruschi, al tempo uno dei massimi dirigenti del sindacato dei marittimi, ci trasmette la memoria di quei giorni, facendo rivivere al lettore il clima appassionato che si creava sulle navi, nelle assemblee, in seguito alla ricezione dei telegrammi cifrati con cui la centrale genovese della Film-Cgil comunicava con marinai, fuochisti e camerieri di bordo.
Ed il libro, in particolare nell’ultimo capitolo, dedicato alle conquiste dei marittimi seguite allo sciopero, è la smentita più eclatante della tesi espressa dal giovane Eugenio Scalfari che, nell’editoriale de L’Espresso del 26 luglio 1959, sostiene l’idea per cui «lo sciopero s’è risolto in catastrofe». No, lo sciopero – e più in generale la nascita di una conflittualità che dalle navi si era nel frattempo spostata nelle strade e nelle piazze del Paese – consentì una serie di conquiste storiche per i lavoratori marittimi: aumento della paga, indennità di coperta, indennità di macchina, aumento delle ferie, aumento delle pensioni e, più avanti, diminuzione dell’orario di lavoro, scatti di anzianità, indennità per le navi da carico, disponibilità retribuita e assistenza economica al termine dello sbarco.
Si può dire che lo sciopero del 1959 dà il la ad una stagione di conquiste sindacali per una categoria fino ad allora schiava di una legislazione pre-repubblicana; e che si intreccia, grazie allo spirito di riscatto e alla grandissima dignità di questi lavoratori, alla ripresa generale dello scontro di classe nel Paese.
La dignità, appunto. La dignità che deriva dal rialzare la testa per tentare di sconfiggere il dominio assoluto del comandante di bordo, al quale il Codice della Navigazione conferiva poteri incontrastati. «I lavoratori da uomini liberi non tengono alla sua stretta di mano, vogliono che lei e i suoi colleghi non li sfruttino più e fanno la lotta contro di lei […] per obbligare lei a dimettere un po’ del suo egoismo di classe»: così recita uno dei comunicati indirizzati all’armatore Angelo Costa, all’interno de Il lavoratore del mare, foglio della Film, il 15 maggio 1959. L’obiettivo era incrinare un sistema di potere, ratificato nel Codice di Navigazione, che considerava lo sciopero reato di ammutinamento perseguibile con severissime pene di reclusione e che affidava al comando il diritto di controllare e verificare persino i testi dei telegrammi, in arrivo e in partenza. L’obiettivo era conquistare spazi di protagonismo, uscire dal regime militare ancora in vigore a quindici anni dalla fine della guerra e vedere rispettata, anche sulle navi, la Costituzione italiana.
Dall’8 giugno al 18 luglio 1959 gli equipaggi di 120 navi, nei porti italiani ed esteri, producono uno sciopero che conduce al raggiungimento di questi risultati.
Ma l’agitazione non nasce dal nulla: è lunga la storia dei marittimi genovesi e delle loro lotte. Bruschi dà conto nei capitoli iniziali dei prodromi della “resistenza marinara”, sin dalle prime rivolte spontanee tra il 1896 e il 1898 contro i tentativi prefettizi di sciogliere la Camera del Lavoro e dalla nascita della prima lega nel gennaio del 1900.
Nel 1910 il giovane ufficiale di coperta Giuseppe Giulietti, divenuto rapidamente dirigente della Film, fonda la cooperativa Giuseppe Garibaldi e dà vita all’esperienza del “sindacato produttore”. Nel secondo decennio del secolo l’autogestione del lavoro si intreccia con iniziative di grande valore politico: dalla costruzione di un fondo comune di resistenza, formato dal contributo del 10% del salario di ogni marittimo, agli aiuti economici a sostegno della giovane rivoluzione sovietica. Nei primi anni Venti quell’esperienza tramonta e lascia il passo ad una deriva autoritaria e militarista che conduce lo stesso Giulietti a sostenere la spedizione fiumana di D’Annunzio e a stringere rapporti sempre più ambigui con il nascente regime fascista.
Nel dopoguerra quella che Bruschi chiama la «riscossa marinara» (di cui egli stesso è grande protagonista assieme al segretario generale della Film-Cgil Renzo Ciardini) ricomincia tra il 1956 e il 1958. Nel maggio 1958 scoppiano alcuni scioperi che conducono ai primi risultati concreti: dopo ventisette anni il contratto nazionale del 1931 subisce, sotto la pressione di un protagonismo e di una capacità di lotta inediti, le prime modifiche. Gli armatori non mollano: sono costretti a riconoscere il ruolo del sindacato di classe, che rapidamente conquista e moltiplica il consenso tra i marittimi, ma non vogliono rinnovare il contratto. Il 16 dicembre giunge l’accordo: il negoziato sarà chiuso entro il 31 maggio 1959.
I padroni però non rispettano le intese e il contratto non si chiude: scatta allora lo sciopero più lungo della storia dei marittimi italiani. Gli equipaggi di Anna C., Federico C., Bianca C., Conte Grande, Conte di Biancamano, Marina Croce, Gianni Zeta, Giulio Cesare, Vulcania, Africa, Europa, Marco Polo, Usodimare, Pacinotti e quelli di decine e decine di altre navi si fermano. Le imbarcazioni rimangono bloccate in tutti i porti: da Genova a Dakar, da Melbourne a Calcutta. E la lotta è anche politica perché gli armatori Costa, Fassio e Lauro, così come la polizia, sono schierati con il governo Segni.
L’esito del conflitto è noto. I quaranta giorni del 1959 scrivono una delle pagine più gloriose del movimento operaio italiano. A questi segue la repressione di Torre del Greco e, a catena, la lotta dei camalli genovesi del 1960. È l’inizio indelebile di un decennio di conflitto sociale acuto, di battaglie sindacali, di conquiste e di avanzamenti. Si rafforza il sindacato, cresce l’influenza e l’egemonia della sinistra nel Paese.
Fortunato Sironi, giovanissimo carbonaio sulla Victoria del Lloyd Triestino e coraggioso animatore dello sciopero di Karachi, è uno dei tanti umili protagonisti di quelle vicende e, per questo, uno tra i simboli di quella riscossa. La riscossa di una classe lavoratrice a cui dobbiamo quei diritti e quelle tutele che nell’ultimo ventennio hanno cercato – e via via con sempre più frequente successo – di sottrarci. Tenere viva la memoria, come Giordano Bruschi ha fatto con il suo prezioso lavoro, significa anche lottare per evitare che il furto continui ed invertire – è proprio il caso di dirlo – la rotta. Lottare con le stesse aspirazioni, la stessa passione e la stessa intelligenza di allora.