Livorno, quindici anni di bugie

Quindici anni dopo, nulla è cambiato: quella del Moby Prince resta una strage senza colpevoli. Come piazza Fontana, piazza della Loggia, l’Italicus, Ustica, la stazione di Bologna, come il treno 904…
Alle 22.25 del 10 aprile 1991, il traghetto Moby Prince sfonda con la prua l’imponente Agip Abruzzo, una petroliera alta come un grattacielo e lunga come tre campi. Muoiono bruciati in 140, uno solo si salverà. Perché sia andata a sbatterci contro non si è mai saputo: è stato fatto di tutto per non arrivare alla verità. Non è la sola domanda senza risposte: la tragedia del Moby Prince è un insieme di misteri contenuti l’uno nell’altro, quasi fossero tante scatole cinesi impenetrabili. Verità sapientemente blindate da una giustizia non giusta.
L’impatto tra il traghetto e la petroliera è devastante: il Moby perfora uno dei tank dell’Agip Abruzzo e in pochi minuti si genera un incendio di grosse proporzioni. In qualche modo, il traghetto si disincaglia e il comandante del Moby, Ugo Chessa, lancia il may day. Nel frattempo il Moby, a causa dei comandi ormai fuori uso, prende il largo nell’oscurità della notte avvolto dalle fiamme. Il disperato appello di Chessa cade nel vuoto. Alle 23 arrivano i primi soccorritori i quali, come espressamente richiesto dal comandante dell’Agip Abruzzo, Renato Superina, prestano soccorso alla petroliera anziché al traghetto (inspiegabilmente scambiato dallo stesso Superina per una bettolina). Nessuno si occupa di prestare i soccorsi al Moby, tranne un paio di imbarcazioni private che si avvicinano al traghetto. E’ così che salverà la vita l’unico superstite, Alessio Bertrand, un giovane mozzo alla sua prima navigazione, aggrappato a un corrimano esterno del traghetto.
La totale assenza di organizzazione nelle operazioni di soccorso, o meglio la totale assenza di soccorsi al Moby è uno dei misteri più profondi. Perché, qualsiasi cosa sia successa, qualsiasi misfatto si sia voluto coprire, non si è saputo o voluto salvare 140 persone da una morte atroce? Nelle ore successive al tragico impatto, le comunicazioni radio sono rimaste quasi sempre mute. Chi doveva dirigere le operazioni di salvataggio, vedi il comandante del porto, Sergio Albanese, non l’ha mai fatto. «Assentivo alle disposizioni dell’ufficiale della centrale operativa: mi sembravano giuste e non avevo motivo di contraddirlo», si è sempre difeso Albanese, che secondo alcuni non c’era, quella notte, in porto.
Parimenti ininfluenti sono state stimate dal presidente del collegio giudicante del tribunale di Livorno, Germano Lamberti (nei guai fino al collo per l’accusa di corruzione nel processo «Elbopoli»), le «disattenzioni» di Superina. Come quella di aver più volte ritrattato sull’accensione o meno del radar al momento dell’impatto, oppure aver descritto, nel giro di 48 ore, ben 5 posizioni diverse della nave, o quella di aver dimenticato il diario di bordo nella plancia di comando dell’Agip Abruzzo, andato distrutto tre giorni dopo. Il diario di bordo dell’Agip non è l’unico documento distrutto: un preziosissimo filmato amatoriale girato a bordo e scampato all’incendio per miracolo, è giunto al magistrato tagliato e incollato con una parte di nastro vergine.
Poco, invece, si è sempre detto delle carenze strutturali del Moby, un traghetto presentato come l’ammiraglia della Moby Lines, ex-Navarma, ma in realtà ritenuto idoneo solto a svolgere collegamenti costieri. Interni di gran lusso ma parte dell’elica rotta, una radio che non funzionava, un solo radar (dei tre a bordo) funzionante, il sistema antincendio Sprinkler fuori servizio come le cosiddette serrande taglia-fuoco. Anche alla luce dell’accertata manomissione del timone da parte del nostromo del Moby, Ciro Di Lauro, su ordine dell’ispettore della Navarma, Pasquale D’Orsi, con l’obiettivo di addossare ogni responsabilità dell’incidente al comandante Chessa. «Un atto deprecabile ma non punibile» per il pretore di Livorno, e così, anche per il proprietario della flotta Navarma Achille Onorato, sarà accolta la richiesta di archiviazione. Proprio come Albanese, Superina e gli altri pezzi grossi.
L’indicazione che da subito arriva dai «piani alti» è precisa: la causa della tragedia è una e una soltanto: la nebbia. Un refrain ripetuto da quasi tutti i vertici della politica, a cominciare dall’allora ministro della marina mercantile, Carlo Vizzini. Tesi condivisa da pochi altri, anche tra chi quella sera si trovava al porto. Un certo Canavina, comandante di un’altra petroliera ancorata in rada, l’Agip Napoli, si trova a un miglio e mezzo al momento dell’impatto. Via radio comunica di vedere benissimo quanto stava accadendo. Eppure, lui come altri testimoni «scomodi». Non verrà neanche ascoltato come teste al processo. Lo stesso Superina, tra «non so» e ritrattazioni, afferma in quei concitati momenti di vedere benissimo la costa: «Livorno ci vede!». Anche Federico Sgherri, il pilota che accompagna il Moby fuori dal porto, è sicuro: quella notte non c’era nebbia, specificando anche come l’Agip Abruzzo fosse illuminato e ben visibile. I dubbi vengono fugati da un video amatoriale trasmesso dal Tg1 due giorni dopo. Si vede chiaramente l’incendio, niente nebbia o foschia. Eppure la sentenza, grazie soprattutto alle dichiarazioni dei periti del Pm, affermerà che la nebbia, seppur a banchi, c’era e doveva essere considerata la vera causa del disastro.
Quella notte, la rada del porto di Livorno somiglia a un supermarket. C’è di tutto: due superpetroliere, un traghetto, probabilmente una bettolina impegnata in operazioni di rifornimento di carburante o, come sostengono in molti, nell’esatto contrario, ossia l’aspirazione del greggio, una pratica illegale da sempre comune nei porti e in particolare a Livorno. Il ritrovamento di una pompa semicarbonizzata ancora inserita nel bocchettone di uno dei tank dell’Agip Abruzzo confermerebbe una di queste due ipotesi. C’erano poi quattro, forse cinque o addirittura sette navi americane impegnate in operazioni di carico e scarico di materiale bellico. E c’era perfino un elicottero statunitense partito dalla vicinissima base Usa di Camp Darby che visionava le operazioni. Azioni di routine nel porto toscano, e la prima guerra del Golfo era terminata da un paio di settimane. Il capitano della Guardia di Finanza Cesare Gentile afferma d’aver visto almeno una di queste navi impegnate in operazioni di carico armi. Nessuno ha mai voluto interrogarlo.
Registrata come attraccata a una banchina c’era anche un’imbarcazione somala, la 21 Oktobar II, nave-peschereccio donata alla Somalia dalla cooperazione italiana. Ufficialmente a Livorno in riparazione, secondo il pilota del porto avrebbe fatto rifornimento di carburante (non si capisce perché, se impossibilitata a viaggiare) e secondo altri (notizia mai verificata) sarebbe stata persino vista in rada. E’ certo, invece, che la 21 Oktobar II apparteneva alla flotta Shifco, oggetto di attenzione da parte di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin.
Uno che non si è mai arreso è Loris Rispoli, dell’associazione «140» dei familiari delle vittime: «In questi 15 anni abbiamo chiesto verità e giustizia. Avevo fiducia nella giustizia, pensavo che il nostro caso fosse diverso da altre tragedie italiane, non vedevo implicazioni internazionali come Ustica. Il giorno che il tribunale di Livorno assolse tutti, mi sembrò che il mondo mi crollasse addosso. Mi sentivo sconfitto, solo, avevo assistito a un processo farsa a imputati che avevano pochissime responsabilità. I veri responsabili non erano mai stati imputati». Rispoli non ha paura di fare i nomi: «La sentenza della corte di appello di Firenze è chiara: Rolla, il terzo ufficiale dell’Agip, è colpevole, ma ben più gravi sono le responsabilità di quelli che noi familiari delle vittime consideriamo responsabili: l’armatore Onorato, il comandante della Capitaneria Albanese, il comandante della petroliera Superina. Con le loro azioni e le loro omissioni hanno permesso che quella notte sul traghetto Moby Prince trovassero la morte 140 persone». Rispoli, a nome di «140», formula anche una richiesta netta e legittima: «Continuo a chiedermi perché, di fronte a una sentenza accusatoria cosi chiara, non si sia aperto un processo con questi imputati. Continueremo a chiedere che il processo sia riaperto e i responsabili siano sul banco degli imputati, perché chi ha permesso e causato la morte di 140 persone deve pagare il suo debito con la giustizia».