La Confindustria è fiduciosa nella ripresa: anzi, siccome in via Dell’Astronomia sono moderati, è «moderatamente» fiduciosa. La parola ripresa, riferita all’economia italiana, ricorre ben otto volte nell’ultimo supplemento alle Note economiche del suo Centro studi, anche se quasi mai vi appare da sola. E’ spesso accompagnata dall’aggettivo «moderata» o da un esplicito «da consolidare» o dalla cauta precisazione che la rpresa ha luogo «dopo il calo del 2005»: ciò avviene quando si parla in generale dell’attività economica e della crescita del Pil ma anche quando si descrivono i dati sul clima di fiducia delle imprese. La ripresa diventa invece «forte» quando viene commentato il contributo degli investimenti lordi delle imprese, mentre è ripresa senza mezzi termini quella attribuita ai consumi e alla produzione industriale.
Insomma, le imprese investono, anche se non sono ancora sicurissime del futuro. L’aria di ripresa fa ringalluzzire gli industriali, e appena se ne presenta l’occasione cercano di fare i primi della classe, o almeno ci provano: nell’ultimo rapporto «L’Italia vista dall’Europa», presentato martedì a Bruxelles, passa così la lettura secondo la quale «le imprese stanno reagendo, ma il sistema paese è in ritardo».
Uno dei corollari di questo quadro è che, siccome il prodotto interno lordo ha accelerato (da quasi zero nel 2005 a +1,9% nel 2006) è aumentata anche la produttività del lavoro nei comparti industriali (+1,2%), e ciò ha comportato – lo segnala proprio Confindustria – il rallentamento del costo del lavoro per unità di prodotto, dal +2,9% al +1,3%, che ora viaggia più lento dell’inflazione: bene, vuol dire che c’è in giro anche un tesoretto delle imprese pronto per essere utilizzato per congrui rinnovi contrattuali, per investire sul lavoro e per portare le retribuzioni un po’ più vicino agli standard dei principali partner dell’euro.
Ma sta andando davvero tutto bene, ancorché moderatamente? Per esempio, i consumi sono davvero in ripresa? In effetti, qualche dubbio viene. I consumi hanno rappresentato per tutto il 2006 una delle componenti più deboli del pil insieme alle spese della pubblica amministrazione: il loro ritmo di crescita è continuato a oscillare attorno all’1%, esattamente sugli stessi valori registrati per buona parte del 2005 quando i consumi erano però la parte più dinamica (si fa per dire) di un pil praticamente tramortito, con investimenti sotto zero. Nell’ultimo trimestre del 2006, quello che ha segnato il recente grande balzo congiunturale del pil che ha dato la stura alle voci sulla ripresa, la crescita dei consumi delle famiglie è stata la metà di quella degli investimenti, oltre un punto al di sotto di quella del prodotto lordo.
E il 2007 non sembra aprirsi sotto migliori auspici. A gennaio le vendite al dettaglio, che identificano una parte rilevante della spesa per consumi, hanno segnato una crescita zero rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, confermando l’andamento piuttosto sonnacchioso dell’ultimo trimestre del 2006. Tenuto conto degli effetti stagionali, l’Istat stima a gennaio una riduzione congiunturale dello 0,4% nel valore delle vendite che depurata dell’incremento dei prezzi verosimilmente si aggrava in termini di volume. Questo andamento è più marcato con riferimento alle spese per prodotti alimentari, e riguarda non solo la piccola ma anche la grande distribuzione (eccetto ipermercati e discount). L’andamento peggiore delle vendite al dettaglio si manifesta nelle regioni del sud, dove la crescita è negativa e dove il ritmo di crescita è stato per quasi tutto il 2006 più lento rispetto al resto del territorio.
Proprio dal sud vengono le note più dolenti per un mercato del lavoro che, al di là dell’aumento dell’occupazione, non dà molti altri segni di solidità. Non solo si tratta di una crescita fondata sui tempi determinati, sui part time, sulla regolarizzazione dei lavoratori stranieri, ma è una crescita concentrata quasi solo nelle regioni del nord e che esclude di fatto quelle del meridione. Pessimi segnali, non proprio tipici dei periodi di ripresa, provengono dalle regioni del meridione (ma in parte anche da quelle del centro), dove cresce la porzione della popolazione (specialmente quella femminile) che rinuncia anche solo a cercare un lavoro, testimonianza di un mercato del lavoro informale e sottoposto agli arbitri più vari.
Ad essere in ripresa, probabilmente, sono per il momento proprio le imprese. La produzione industriale per esempio nell’ultimo anno ha cambiato passo, e il 2006 è stato chiuso con una crescita annuale dell’1,8%, dopo il disastroso -1,7% del 2005. Il 2007, di cui è disponibile al momento solo il dato di gennaio, si è aperto in maniera però in parte contraddittoria dal momento che, tenuto conto degli effetti stagionali e del numero di giorni lavorativi, gli indicatori della produzione e del fatturato hanno mostrato risultati nel complesso deludenti. A spingere di più, anche all’inizio del 2007, sono i comparti più pesanti della manifattura, e in particolare quelli metalmeccanici (specialmente la meccanica e la siderurgia) e quelli della filiera chimica. Si tratta di settori per lo più dedicati alla produzione di beni di investimento e orientati all’export. Da 21 mesi il fatturato dell’industria è infatti tirato soprattutto dalla domanda estera.
Quest’ultima ha segnato nell’ultimo anno un aumento della componente extra-Ue e una ricomposizione dei principali mercati di sbocco. I dati di febbraio, diffusi nei giorni scorsi dall’Istat, evidenziano infatti una ulteriore riduzione della quota del nostro export extra-Ue assorbita dagli Stati uniti, che negli ultimi tre mesi è scesa di circa tre punti rispetto al 2005 con una diminuzione in termini di valore quasi del 5% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Che siano questi i primi effetti dell’atteso rallentamento Usa, del progressivo indebolimento del dollaro e del prevedibile riassorbimento del loro pesante deficit commerciale? L’incognita è pesante, visto che gli Usa rappresentano ancora quasi un quinto delle nostre esportazioni extra-Ue e una componente fondamentale per limitare il passivo commerciale. Nel frattempo cresce l’importanza dei nostri fornitori di energia (Russia e area Opec), che negli ultimi tre mesi hanno colmato buona parte del vuoto dei minori acquisti degli Usa.