«Sono già stato in un governo che ha bombardato il Kosovo e tagliato le pensioni, francamente vorrei evitare il ripetersi di quella esperienza». Cesare Salvi, presidente della commissione giustizia del senato e Ds di «Socialismo 2000», vede grigio sul futuro del centrosinistra. Almeno se non si correrà ai ripari su due nodi decisivi che vengono al pettine nei prossimi giorni. Oltre alla manovra bis, com’è noto, c’è la questione Afghanistan a preoccupare la sinistra pacifista dell’Unione.
Sinistra che proprio al senato, dove la maggioranza è garantita da due parlamentari soltanto, gioca la sua partita decisiva. Sul tappeto per ora c’è solo la mozione di indirizzo sulla politica estera richiesta da Rifondazione, mentre crescono le voci su un possibile voto di fiducia sul decreto di finanziamento.
Strade entrambe perigliose per il governo Prodi. «Così com’è quella missione non la voto come ho sempre fatto – dice Salvi – e tra l’altro mi pare che la situazione a sud di Kabul stia peggiorando proprio mentre la Nato si sostituisce agli Usa nella ‘guerra al terrorismo’». Però, rileva Salvi, «dal punto di vista giuridico se c’è un caso il cui il governo può chiedere la fiducia è proprio questo. Apprezzo il tentativo del Prc di trovare un’intesa comune ma non vedo con favore il ritorno dei defatiganti tavoli dell’Unione?».
Romano Prodi, da Bruxelles, è consapevole dei rischi e non si sbilancia, confermando però l’impegno italiano a Kabul: «Nessuna decisione è stata presa sul numero delle truppe, né di aumento né di diminuzione. E’ un tema su cui si decide con gli alleati e si lavora con loro». Posizioni che non spostano di un millimetro la sinistra pacifista e comunista dell’Unione. Fosco Giannini, capogruppo Prc in commissione difesa, è il direttore dell’Ernesto, la rivista della minoranza più consistente di Rifondazione. L’analisi è solare: «In Afghanistan assistiamo a una penetrazione della Nato in un’area che va dall’Iran alla Cina, in un quadro geopolitico ben diverso da quella dell’Iraq e, purtroppo, meno noto all’opinione pubblica». Per Giannini la sinistra pacifista e comunista «non può votare quella missione perché sarebbe un tradimento del mandato elettorale». E se ci fosse la fiducia? «Io non voglio far cadere il governo ma Prodi non diventi di destra», dice con una battuta ponendo invece duri paletti sulla strada della mozione: «Primo, i soldati ritirati dall’Iraq non vanno in Afghanistan; secondo, non possiamo essere coinvolti nella guerra nel Sud del paese; tre, niente aerei Amx; ultimo ma più importante, ci deve essere un impegno per il ritiro in tempi certi e verificabili, cioè entro l’anno, altrimenti votiamo contro». Termini quasi ultimativi che però non vengono raccolti da Lidia Menapace, che si limita a chiedere – stante la sua netta contrarietà a tutte le missioni militari – «il metodo del consenso per arrivare a una soluzione condivisa, anche perché non è possibile che il governo vada avanti solo a colpi di fiducia». Luigi Malabarba, trotzkista del Prc ed ex capogruppo a palazzo Madama, tiene il punto: «O quella mozione stabilisce una netta discontinuità con la politica estera del governo Berlusconi oppure voteremo contro come abbiamo sempre fatto. Un documento generico che suggerisse magari un disimpegno futuro sarebbe solo una foglia di fico per la continuazione invariata di quella missione. Per il ritiro ci vogliono tempi certi». E la fiducia? «E’ un ricatto, al quale magari sarebbe difficile sottrarsi ma che certificherebbe l’avvio di una crisi di governo e darebbe ancora più peso alle sirene neocentriste e di larghe intese che già mi sembrano abbondantemente all’opera». Giovanni Russo Spena avvisa gli alleati: «Nell’Unione ci sono tre partiti che hanno sempre votato contro la missione, credo però che sia possibile fare un passo in avanti e trovare una mediazione avanzata». Punto fermo per il capogruppo del Prc al senato è evitare «l’abbraccio mortale proposto dal centrodestra». Rifondazione e Verdi insomma vogliono evitare la fiducia, che sarebbe solo un’indigeribile conferma dello status quo.
Oggi il segretario Franco Giordano indicherà al comitato politico la rotta sull’Afghanistan, ribadendo la richiesta di una «exit strategy» che definisca un taglio di «discontinuità e di autonomia netto rispetto al passato». Non senza frecciate al Pdci, che sulla vicenda ha osservato una traccia a zig zag: «Noi – attacca Giordano – non vogliamo lanciare urla propagandistiche per poi lasciare le cose come stanno, vogliamo modificare la politica estera e far vivere lo spirito dell’Unione».