L’Italia in guerra

L’Italia è un paese in guerra. Come prevedibile, l’insediamento del nuovo governo Berlusconi ha portato con sé l’adesione definitiva alle operazioni di guerra, guidate dagli Usa, in Afghanistan. La decisione di modificare i caveat, ovvero le regole di ingaggio del contingente italiano, riducendo il tempo di risposta alle richieste di intervento degli alleati da 72 a 6 ore implica la partecipazione diretta ai combattimenti. In questo modo, l’Italia, insieme alla Francia, dà seguito all’impegno sottoscritto dagli alleati europei all’ultimo vertice della Nato a Bucarest che ha segnato un punto importante a favore del coinvolgimento europeo nella strategia Usa della “guerra permanente”.Si tratta di un risultato importante non solo per l’aiuto in mezzi e uomini alle forze armate Usa e britanniche, stressate dall’ormai lungo impiego in due teatri di guerra logoranti come l’Iraq e l’Afghanistan, ma anche per la riconquistata legittimazione della strategia politica statunitense, che, prima con la presa di distanza di Francia e Germania dall’invasione dell’Iraq, e poi con il ritiro italiano e spagnolo da quel teatro di guerra, aveva scontato la rottura con la Ue. Per la verità il coinvolgimento italiano in operazioni di guerra era cominciato ben prima, durante il governo Prodi, che per diverso tempo ha tenuto un atteggiamento ambiguo sulla guerra in Afghanistan. Infatti, sin dall’autunno scorso numerose erano state le indiscrezioni, filtrate attraverso la stampa (il Sole24ore, l’Espresso, il manifesto), di un coinvolgimento in azioni di guerra dei carri armati e degli elicotteri italiani da trasporto e da combattimento “mangusta” e delle truppe speciali della Forza 45, composta da incursori della Marina militare e dal battaglione Col Moschin della brigata paracadutisti Folgore.Inoltre, ad aprile, Panorama aveva parlato di ben otto scontri armati verificatisi tra le nostre truppe ed insorgenti afghani dall’inizio dell’anno. Infine, secondo la Repubblica del 23 maggio “…negli ultimi tempi il governo Prodi aveva autorizzato la massima flessibilità sull’applicazione dei caveat. Come dire che in segreto l’Esercito italiano aveva iniziato a fare operazioni contro i Talebani uguali a quelle degli altri contingenti.” La cosa era stata implicitamente ed improvvidamente confermata già alla fine del 2007 dall’allora ministro della difesa del Pd, Arturo Parisi, che alla domanda, rivoltagli da Limes, sul perché si parlasse così poco delle nostre truppe speciali in Afghanistan, rispondeva così: “Il fatto che non se ne parla ad ogni piè sospinto deriva solo dal principio che meno se ne parla e più si garantisce la loro efficacia e sicurezza.”Del resto, alle numerose interrogazioni parlamentari sulla partecipazione dei militari italiani ad azioni di guerra, rivolte da deputati e senatori di PdCI, PRC, Verdi e SD, il governo aveva sempre riposto per mesi negativamente, per ammettere infine, a ridosso della sua caduta, la partecipazione italiana a scontri armati, giustificandoli però come azioni difensive. In effetti la segretezza e l’ambiguità mantenuta dal governo Prodi serviva a tacitare la sinistra presente nel governo, che comunque riusciva ad esercitare una funzione frenante sull’accettazione completa da parte italiana delle continue richieste Usa di mezzi e truppe combattenti. Oggi, con la sinistra non più solamente al di fuori dal governo, ma anche dal Parlamento, il contingente italiano può entrare in guerra in modo più consistente e completo. Non saranno più soltanto limitate unità di truppe speciali ad entrare in azione, ma interi battle group di centinaia di uomini.Tutto questo avviene senza che il Pd, unica opposizione rimasta, si opponga. Si tratta della dimostrazione che su alcune questioni esiste una sorta di convergenza cosiddetta bipartisan, tra le forze politiche maggiori, che nega di fatto, in attesa di modificarla formalmente, la Costituzione repubblicana e nella fattispecie l’articolo 11, che ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali e limita l’impegno delle Forze Armate ai confini nazionali. Ma sarebbe un errore pensare che l’accettazione della guerra come fatto “naturale” nelle relazioni internazionali sia un prodotto di oggi. E’ almeno dall’inizio degli anni 90 che è passata la dottrina strategica secondo cui i confini dell’intervento delle FF.AA. si estendono fino a dove arriverebbero presunti “interessi nazionali”. E le cosiddette “missioni di pace” hanno nascosto il coinvolgimento di nostre truppe in vere e proprie battaglie campali, come quella al check point “Pasta” a Mogadiscio, nel corso della quale furono uccisi tra i tre e i quattrocento civili somali, e la più recente “Battaglia dei Ponti” a Nassyria.Ma ciò che forse ha meglio simboleggiato l’accettazione di massa della guerra come fatto normale, purché beninteso si svolga lontano dalle proprie case, è stata la reazione popolare all’attentato di Nassyria, dove numerosi militari italiani persero la vita per l’ostinazione del governo Berlusconi a mantenere un profilo da “operazione di pace” in una missione che non poteva esserlo per principio. Invece di scatenare una ondata di proteste e la richiesta di ritiro del contingente, la cerimonia funebre fu per il governo Berlusconi occasione di retorica patriottarda e, per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, fu riutilizzato in questa chiave quello che fu il simbolo del militarismo dell’italietta imperialista novecentesca, l’Altare della Patria.Eppure ogni volta che un soldato italiano cade in Afghanistan, i giornali riportano la stessa domanda da parte dei genitori affranti: “A che serve stare lì? Perché non ce ne andiamo?”. Ebbene questa domanda forse dovremmo porcela prima, specialmente ora che i caveat vengono modificati, chiedendoci a che serve versare il sangue di italiani e spendere miliardi di euro per permettere agli Usa di controllare, attraverso l’Afghanistan, l’Asia centrale e le sue risorse energetiche. Senza contare che la guerra “contro il terrore” dopo sette anni è riuscita soltanto a destabilizzare ancora di più quel paese con azioni belliche e bombardamenti indiscriminati, che più che eliminare Talebani sono riusciti a provocare centinaia di vittime tra i civili e l’avversione di questi verso tutte le truppe occidentali.La ricostruzione della sinistra deve avere nella questione della guerra e ovviamente nel ritiro dall’Afghanistan un punto centrale e non solo sul piano del rifiuto etico e morale. Una società in guerra è una società dove la democrazia si restringe e gli standard vitali si comprimono. Infatti, non è un caso che al risultato elettorale “maggioritario”, che ha portato con sé l’espulsione della sinistra dal Parlamento, corrispondano, e lo vedremo ancora più nettamente nel futuro, un rinnovato attacco ai salari e un maggiore coinvolgimento in Afghanistan.