Troppo silenzio accompagna l’appello degli economisti per la stabilizzazione del rapporto Debito/Pil (il Manifesto, 16 luglio). Eppure, per la prima volta in molti anni, l’appello non contiene semplicemente una protesta, ma offre un elemento essenziale per risolvere i problemi di politica economica del centro sinistra. Perciò, mentre dobbiamo esprimere molta gratitudine ai firmatari dell’appello, il governo e la maggioranza, nel preparare la Legge Finanziaria, dovrebbero prendere nota del loro ragionamento. In effetti, benché la riduzione del rapporto Debito/Pil costituisca una parte fondamentale degli obiettivi del Dpef, non è affatto indispensabile: restituire i fondi corrispondenti alla riduzione di quel rapporto al mercato internazionale dei capitali non serve a nessuno. Ridurre quel rapporto implica aumentare simmetricamente il rapporto con il Pil di tutte le altre forme di debito privato. In pratica, gli acquirenti di titoli di Stato si rivolgeranno ad altri titoli emessi dal settore privato – obbligazioni, cartelle dei mutui, qualsiasi altro strumento finanziario portatore di interesse. Ora, un aumento del debito privato che fosse originato da nuovi investimenti, sarebbe una buona cosa; ma tutti sanno che gli investimenti in Italia (e in Europa) non sono in difficoltà per una qualche scarsità di mezzi finanziari. Al contrario, c’è un eccesso di risparmio, di profitti, di rendite, di liquidità in tutto il mondo sviluppato, che causa grande volatilità sui mercati finanziari e sul mercato dei cambi. In realtà, la riduzione della quota del debito pubblico italiano sul debito internazionale è, poi, una goccia nel mare della finanza, e cambiamenti nel rapporto Debito/Pil italiano non alterano né l’andamento degli indici dei rendimenti obbligazionari né il valore dell’Euro rispetto al dollaro. Se quel rapporto aumentasse, correremmo il rischio di una peggiore valutazione del debito da parte delle agenzie di rating, con il conseguente aumento degli oneri finanziari per lo Stato, ma poiché il debito sarebbe stabilizzato, il rating non cambierebbe.
Mi si chiederà cosa succederà dopo che il rapporto del debito si sarà stabilizzato: non succederà niente di particolare. Se ci sarà crescita, e se fosse necessario dirottare risparmio verso il settore privato, il rapporto del debito potrà diminuire. Se non ci sarà crescita, il debito privato non crescerà, e il rapporto del debito potrà crescere o restare costante, senza che succedano disastri.
La stabilizzazione del debito, naturalmente, necessita una qualche manovra di aggiustamento, allo scopo di evitare che il debito aumenti, ma rispetto alle pesantissime restrizioni annunciate nel Dpef, permetterebbe di lasciar respirare l’economia e, proprio per questo, di ottenere insperati aumenti di gettito tributario. Gli economisti, nell’appello, ricordano che la riduzione del debito si farebbe riducendo la spesa per pensioni, sanità, pubblico impiego (cioè l’istruzione, la ricerca, l’ambiente), enti locali (cioè, trasporti, cultura, assistenza ai poveri), mentre non è affatto chiaro cosa si guadagni in cambio dei sacrifici richiesti (di nuovo lacrime e sangue?). Il Dpef riconosce che la manovra restrittiva ridurrà la crescita (di nuovo i due tempi?), ma ne dà una valutazione molto ottimistica, perché suppone che una riduzione della domanda complessiva di tre punti di Pil (tra minori spese e maggiori entrate) porti una riduzione della crescita di qualche decimo di punto. Dei tre punti di taglio, due deprimono subito la domanda, e uno va a finanziare “lo sviluppo”, ma il suo effetto benefico, sempre che la medicina funzioni, richiede tempi medi di realizzazione, e nel breve deprime anch’esso la domanda. Così, è difficile capire perché tagliare la domanda pubblica di tre punti di Pil possa evitare una perdita, appunto, di esattamente tre punti di Pil in un solo anno – un evento che segnalerebbe la maggior recessione mai sperimentata in Italia. Si potrebbe perfino pensare di peggio: come ogni aumento di domanda moltiplica il livello del reddito, così ogni diminuzione moltiplica la perdita di reddito (si dimentica spesso, in questi conti, che se la spesa si riduce, la produzione dovrà calare, e con questa i salari, i consumi, di nuovo la produzione, e perciò il reddito, mentre l’inverso avviene se la spesa aumenta). So che non finirà in questo modo, ma l’appello degli economisti chiede solo di evitare di affidarsi allo stellone d’Italia – un modo non esemplare di dichiararsi riformisti.