L’Italia è a pezzi, ma sull’attenti

C’è un disegno unitario nell’azione, disastrosa, del governo del cavaliere. Dalle leggi salvaladri alla Bossi-Fini, dall’attacco al welfare ai colpi alla scuola pubblica, dall’occupazione della Rai alla devolution, fino a diventare la ruota di ruota di scorta di Bush e Blair per l’attacco all’Iraq. L’opposizione, così com’è, non riesce a rispondere alla sfida

Il manifesto – 3 gennaio 2003 (ultima pagina-controcopertina)

Un paesaggio di profonde contraddizioni, questa è l’eredità dell’anno appena concluso. Fatto di conflitti e di guerre prossime venture. Ma anche di nuove speranze. Il governo Berlusconi si è ormai avvitato nella spirale di una difesa aggressiva dei privilegi, che impone continue violazioni della legalità, le quali a loro volta generano nuovi e più scandalosi privilegi. Sempre più si aggrava il pericolo che questo manipolo di avventurieri rappresenta per le stesse sorti della democrazia. Dall’altra parte, come per una legge fisica di compensazione, irrompe a tratti una luce. Sorgono nuovi movimenti, tornano a scioperare fabbriche, uffici, scuole e ospedali. Al Circo Massimo e a San Giovanni, a Genova e a Firenze un grande popolo di sinistra, percorso da profonde diversità ma accomunato dalla consapevolezza della necessità di una intransigente opposizione, invade pacificamente le strade e le piazze del paese. E’ questo il quadro in chiaroscuro che ci sta dinanzi e che va considerato nel suo complesso. Cominciamo dal primo aspetto, dal bilancio disastroso dell’azione del secondo governo Berlusconi negli ultimi diciotto mesi. L’attacco all’articolo 18 con cui il governo apre la guerra contro il lavoro mira a forzare tutto un sistema di garanzie e a varare una forma di società in cui il lavoro dipendente sia privo di diritti, ostaggio del capitale, servo – in senso proprio – del padrone. Sinora l’offensiva non è passata, grazie alla risposta della Cgil. Ma è servita a frantumare l’unità sindacale in vista del rinnovo dei contratti. Il primo frutto avvelenato è stato il cosiddetto Patto per l’Italia. Poi è venuta la cancellazione istituzionale di tutto il sindacato dalla trattativa tra il governo e la Fiat. Così, quando a Termini, ad Arese, a Mirafiori gli operai e le loro famiglie scendono in lotta, Berlusconi dapprima blandisce: niente paura, si può sempre ripiegare sul lavoro nero. Quindi, mentre i carabinieri schedano gli operai in sciopero e filmano i blocchi stradali, getta la maschera e inveisce: intollerabili i disagi che le lotte operaie provocano ai cittadini (a quelli di serie A, si intende). Come sempre, è un intero modello di società a venire in chiaro nei passaggi cruciali della lotta di classe. Lo scontro sulla Fiat offre la chiave per capire il senso di tutte le scelte del governo. L’attacco al welfare, destinato ad essere liquidato dalla devolution. L’assedio alla scuola pubblica, lo strangolamento dell’Università e della ricerca. La privatizzazione del patrimonio ambientale e artistico. Quella che si vorrebbe è una oligarchia di rentier finalmente liberi dall’impaccio della sfera pubblica. E la legge? Che torni ad essere quel che era in tempi più sicuri: pura e semplice volontà del sovrano.

Di qui le leggi salvaladri e la guerra contro la magistratura indipendente, l’indicibile vergogna della Bossi-Fini, il fucile del «carcere duro» puntato su oppositori e migranti, il sadico dileggio dei detenuti. Di qui l’occupazione militare della Rai, la censura sui libri di testo, le minacce ai giornalisti impertinenti, le mani che si allungano sui quotidiani non ancora sommersi nel monopolio dei media, del cinema, della pubblicità. E, dulcis in fundo, le picconate all’unità del paese e alla Costituzione. Balcanizzare la Repubblica, di questo si tratta. Per offrirla in pasto ai potentati locali – imprese, cosche, società segrete – e trasformare il paese in una platea amorfa e impotente che plauda al nuovo Cesare. O al nuovo Nerone. Dopodiché – tutto si tiene – diventa facile anche il gioco della guerra.

L’Italia berlusconizzata rompe la pur timida autonomia europea, si mette di traverso nell’opera di costruzione dell’Europa politica tentata da Germania e Francia, e si candida, insieme alla Spagna, a ruota di scorta dell’asse anglo-americano nella sua politica di potenza imperialistica. A servitore zelante, a cane da guardia, con la ferocia che gli si conviene. Non trova nulla da eccepire nella criminale tracotanza della «guerra preventiva», nulla nella pianificazione di altre migliaia di vittime inermi, dopo il milione e mezzo di morti iracheni per l’embargo. Quindi, per dimostrare la propria fedeltà, sbatte la porta in faccia all’Autorità palestinese nel momento in cui la violenza israeliana raggiunge il culmine, e si adopera per cooptare la Turchia nell’Unione europea, semplicemente ignorando che a venti milioni di kurdi residenti in Turchia sono negati i diritti più elementari (compreso l’uso della propria lingua), che il regime turco ha già ucciso almeno 30mila kurdi, e che la Turchia offre le basi per l’attacco all’Iraq in cambio della copertura dei propri continui sconfinamenti nel Kurdistan iracheno. Già porta dell’Europa sul Mediterraneo, il nostro paese si inorgoglisce oggi del ruolo di arcigno vigilante dei privilegi del nord. Non c’è segno dei tempi più nitido di questo.

Non diciamo tutto questo perché si tratti di cose poco note, ma per suggerire che non si capisce niente di quanto sta accadendo se non si coglie l’organicità del quadro e l’intera portata regressiva dell’azione di questo governo piduista. Ciò vale, da ultimo, anche per la Finanziaria 2003, fatta di tagli agli enti locali, alla scuola pubblica, alla sanità, e di regali agli evasori e agli esportatori di capitali. Dall’«arricchitevi!» di Craxi siamo al più discreto «rubate!» del suo degno erede. Ma non si tratta soltanto di rapina. Per bocca del ministro Tremonti – autore di un libro intitolato Lo Stato criminogeno: un’autobiografia? – il governo teorizza i nuovi fondamenti del modello italiano: precarietà, lavoro nero, miseria delle classi lavoratrici. In positivo, è in gioco la costruzione di un blocco sociale, o meglio: il rafforzamento di un complesso di forze e di interessi accomunati dall’avversione per la democrazia e tenuti insieme dal collante dell’illegalità. Il che dà la misura della sconsideratezza di quanti ancora propendono per letture ottimistiche del berlusconismo. Sarebbe ora di capire che se non è in sé un delitto, l’essere volgari, ignoranti e grotteschi non impedisce tuttavia di compiere reati, compreso l’attentato alla Costituzione.

Va colto il segno politico – per dir così costituente – di questa manovra finanziaria, l’attacco che sferra contro la sfera pubblica democratica intesa come luogo della tutela della ricchezza sociale e della partecipazione all’esercizio dei poteri. Temendo che ne riducessero l’impatto, il governo si è lamentato dei troppi emendamenti presentati dalla maggioranza. Si capisce, dal suo punto di vista: meno evidente (ma altrettanto istruttivo) è che la soluzione invocata da Berlusconi – sottrarre al vaglio del parlamento la legge di bilancio – ricordi da vicino quella auspicata da Massimo D’Alema, che in un’intervista al Corriere della sera lo scorso settembre si disse talmente convinto delle virtù del maggioritario, da ritenere opportuno evitare interferenze parlamentari nelle Finanziarie.

In positivo – e siamo all’altro versante del discorso – tutto questo dice l’importanza del risveglio dell’opposizione sociale cui ci siamo riferiti in apertura. Il clima del paese, nonostante tutto, non è affatto pessimo. La consapevolezza della posta in gioco si diffonde, insieme al sentimento della concreta possibilità di battere la destra. Si approfondisce, con ogni evidenza, la scissione del paese reale. Di questo nuovo clima parlano i movimenti di opposizione che tengono ormai stabilmente la scena. E anche la sempre più manifesta litigiosità della maggioranza. Ma tutto ciò non basta. C’è uno iato, potenzialmente pericoloso, tra le istanze e le soggettività diffuse dell’opposizione e la loro reale incidenza politica. Tale divario dev’essere colmato. Non solo per mettere in valore un patrimonio, ma anche (torna alla mente l’ammonimento di Gramsci sui rischi legati a un vuoto di direzione politica nelle fasi di crisi acuta) per evitare che a incassare i frutti di un grave deficit di rappresentanza e di direzione sia una destra resa ogni giorno più aggressiva dalla percezione della propria crisi egemonica. Se questo è vero, un compito fondamentale incombe sulle più conseguenti forze politiche di opposizione, che in questi mesi hanno efficacemente operato per la mobilitazione del paese contro il governo: lavorare, con spirito unitario e rispetto reciproco, alla costruzione di una piattaforma realmente alternativa alle destre.

Non servono nuovi partiti, occorre piuttosto rendere più efficaci quelli che già esistono, consentendo al loro interno la più ampia espressione e il più libero confronto delle idee. E’ il momento della ricerca delle ragioni condivise e della tessitura di progetti concreti, capaci di parlare a tutti i movimenti. Si tratta, per intendersi, di andare nella direzione opposta a quella indicata dall’attuale dirigenza dei Ds, che non perde occasione per dividere, per ammiccare al governo in carica e ai poteri che l’hanno incoronato, per lanciare anatemi contro tutto ciò che di nuovo si muove nel corpo della società. E si tratta, a maggior ragione, di affrontare tempestivamente e senza reticenze la discussione su una concezione dei compiti, delle forme e della stessa struttura dell’opposizione, che alla prova dei fatti si è dimostrata del tutto inadeguata. L’esistenza stessa dell’Ulivo appare ogni giorno di più priva di senso. E diverse sue scelte strategiche cruciali – dall’assunzione integralistica del Patto di stabilità al sistema elettorale maggioritario, dalla riforma del titolo V della Costituzione alle privatizzazioni – si sono rivelate drammaticamente sbagliate (al pari dell’appoggio alla «guerra umanitaria»), non solo perché causa della sconfitta del 2001, ma anche perché veri e propri presupposti dell’aggressione berlusconiana ai diritti e alla democrazia.

Noi abbiamo due obiettivi da raggiungere nell’anno che incomincia, e nulla ci distoglierà dal perseguirli con determinazione. Opporci, «senza se e senza ma», alla guerra: cioè fare di tutto – a cominciare dalla costruzione, subito, di comitati unitari per la pace in tutte le città – affinché la guerra non scoppi (e affinché si interrompano le incursioni aeree anglo-americane sull’Iraq che si ripetono ininterrottamente fuori da ogni legalità internazionale); e fare di tutto, ove dovesse scoppiare, affinché l’Europa dei popoli si fermi e dica, con uno sciopero generale di tutto il continente, il proprio fermo no alla politica di sopraffazione e di morte di Bush e dei suoi alleati.

In secondo luogo opporci, «senza se e senza ma», alle politiche neoliberiste e ai loro effetti devastanti sulla vita, la libertà, la dignità delle donne e degli uomini di tutto il pianeta: quindi, qui e ora, opporci a questo governo indecente e pericoloso, affinché ogni giorno gli porti nuove e sempre maggiori difficoltà, e perché sia costretto quanto prima a liberare il paese dalla sua intollerabile presenza.