Il presidente Bush dovrebbe far dimettere il segretario alla difesa Donald Rumsfeld e sostituirlo. A chiederlo è un editoriale del Army Times Publications, il gruppo editoriale che serve le quattro armi degli Stati uniti. «E’ ormai chiaro, dalle dichiarazioni pubbliche, che ha perso il sostegno e il rispetto della dirigenza militare», scrive l’editoriale che sarà pubblicato lunedì sui quattro giornali delle forze armate (esercito, marina, aziazione e corpo dei marines), con una circolazione di 250mila copie.
E’ la seconda volta che la pubblicazione dei militari Usa chiede le dimissioni del suo ministro della difesa: la prima era stata nel maggio 2004, in pieno scandalo per le torture compiute (e fotografate) da militari americani nel carcere iracheno di Abu Ghreib. Ora la voce delle forze armate torna alla carica, e questa volta in campagna elettorale: martedì gli Stati uniti votano per rinnovare il Congresso e la guerra in Iraq rimbalza da un comizio elettorale all’altro, da un’intervista a un editoriale.
Ieri però Robert Hodierne, il direttore della Army Times Publications, ha negato (alla Cnn) che l’editoriale contro Rumsfeld abbia nulla a che fare, come tempi, con le elezioni di mezzo termine: a convincerlo a scrivere quell’editoriale proprio ora, ha detto, è stato il presidente Bush quando ha detto, giorni fa, che il segretario alla difesa e il vicepresidente Dick Cheney resteranno in carica fino alla fine del suo mandato. «Non è nostra intenzione» influenzare gli elettori, ha detto Hodierne: «Il nostro obiettivo è dire che per il bene del servizio, per il bene del paese, è ora che questo tizio se ne vada».
E dire che prprio in questi ultimi giorni prima del voto l’amministrazione di George W. Bush è lanciata in una sorta di blitz elettorale: l’estremo tentativo di capovolgere quel senso generale che ormai lega la parola «Iraq» alla parola «sconfitta», e rischia di costare caro al partito repubblicano. Venerdì il presidente Bush ha lanciato parole di sfida in ben tre comizi elettorali: i democratici sono incapaci di dire cosa farebbero in Iraq, ha detto il presidente rivolgendosi agli elettori: «Chiedete ai democratici: qual’è il vostro piano per vincere in Iraq?», e poi: «Non hanno un piano. Le critiche non sono un piano per la vittoria». Altri comizi sono in programma nel week end (sempre e solo negli stati un cui Bush aveva vinto nel 2004: la strategia è mobilitare i suoi elettori disaffezionati dagli scandali, spingerli a tornare a votare).
Il vicepresidente Dick Cheney è stato come suo solito più brutale, in un’intervista alla televisione Abc: ha detto che votare per i democratici che criticano la guerra sarebbe come dire ai terroristi che «la loro strategia funziona». Cheney ha aggiunto che l’amministrazione Bush procederà «a tutto vapore» con la sua politica irachena, indipendentemente dal risultato del voto: «Chiaramente ci sono stati dei problemi» in Iraq, ammette Cheney, «ma la strategia di base è quella giusta».
Non è questo che dicono alcuni dei più illustri ideologhi neo-cons al magazine Vanity Fair, che ha raccolto una serie di interviste e le ha anticipate ieri: e questo è il secondo colpo basso all’amministrazione Bush. Mentre l’Iraq scivola sempre più nel caos (è la parola usata dai comandanti militari nei loro breefings, ha rivelato l’altro giorno il New York Times), alcuni dei teorici neoconservatori che più hanno sostenuto quella guerra attaccano Bush: dicono che il loro gran disegno di esportazione della democrazia è fallito a causa dell’incompetenza della Casa Bianca.
Sono persone del calibro di Richard Perle, consigliere del Pentagono durante il primo mandato di Bush: ora dice che non avrebbe sostenuto quella guerra, se avesse saputo come l’amministrazione l’avrebbe gestita («avrei detto: forse possiamo gestire la minaccia in altro modo»). Kenneth Adelman (altro consigliere del Pentagono) aggiunge che il presidente Bush, il segretario alla difesa Rumsfeld e altri «si sono rivelati la squadra più incompetente dal dopoguerra». David Frum, già uno degli addetti a scrivere i discorsi di Bush, rincara: «Il presidente pronunciava le parole, ma non aveva capito le idee». Ieri hanno tutti confermato le proprie parole, rammaricandosi solo che Vanity Fair abbia sparato l’anticipazione a tre giorni dal voto.